Allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari: automatica la sostituzione con la custodia cautelare in carcere

In caso di allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari da parte dell’indagato/imputato, ai sensi dell’art. 276 comma 1 ter c.p.p., il giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto sia di lieve entità.

Non vi è dubbio che la norma in esame, lungi dall’assolvere a finalità sanzionatorie estranee alle misure di custodia preventiva, costituisce una disposizione di natura eccezionale che va letta nel complesso del sistema cautelare e, dunque, coordinata con il principio secondo cui, in tema di sostituzione e revoca delle misure cautelari coercitive, il presupposto per l’aggravamento della misura non è la violazione delle prescrizioni, bensì la necessità di adeguare lo status libertatis alla eventuale sopravvenienza di circostanze tali da far ritenere aggravate le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.

Ormai consolidato in giurisprudenza il principio, espresso sulla scorta del dato letterale della disposizione in esame (il giudice dispone) che, in caso di trasgressione delle prescrizioni concernenti il divieto di allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari precedentemente disposti, sia esso l’abitazione o altro luogo di privata dimora, l’art. 276, comma 1-ter c.p.p. rende obbligatoria la revoca degli arresti domiciliari ed il ripristino della custodia cautelare in carcere, senza che al giudice possa essere riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari. Tale previsione integra un’ipotesi di presunzione di inadeguatezza di ogni misura diversa dalla custodia cautelare in carcere, una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale.

Solo con la legge n. 47 del 2015, peraltro, il rigore di tale automatismo è stato temperato con la previsione secondo la quale il giudice deve valutare se non si sia in presenza di fatto di lieve entità.

L’apprezzamento del giudice attiene sia alla prova dell’avvenuta trasgressione, che alla prova – negativa – dell’eventuale lieve entità del fatto. E, nel caso in cui tale ultima evenienza sia esclusa, la revoca degli arresti domiciliari è automatica, senza che al giudice sia riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari, tantomeno sotto il profilo della loro attualità, e neppure il potere di aggravare la precedente misura soltanto con ulteriori obblighi aggiuntivi.

Il giudizio (positivo o negativo) sull’entità, sui motivi o sulle circostanze della violazione e, in definitiva, sulla gravità della condotta trasgressiva, è riservato al giudice del merito – giudice che procede e, in caso di impugnazione, al tribunale dell’appello – il quale ha obbligo di fornire adeguata, corretta e logica motivazione apprezzando tutte quelle circostanze di fatto che, pur esulando dalle giustificazioni che scriminano la condotta elidendone l’antigiuridicità, consentono di connotare il fatto, in termini di minore, perché attenuata, gravità.

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Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.