Attività sportiva e la scriminante non codificata della teoria dell’accettazione del rischio consentito – Cass. Pen. sez. IV, 25 novembre 2015, n. 9559

scriminante attività sportiva
@Andre Donato Alemano, ph. (shared on flickr.com)

Segnaliamo al lettore una sentenza recentemente depositata, emessa dalla IV sez. Penale della S.C. di Cassazione, la n. 9559 del 25 novembre 2015, in ordine alla natura ed ai limiti dell’operatività della scriminante c.d. tacita dell’accettazione del rischio in materia di reati perpetrati nel corso di eventi sportivi.

Nel particolare, i fatti oggetto del giudizio trovavano il proprio contesto nello svolgimento di una partita di calcio, serie “eccellenza”, durante la quale l’imputato, in un’azione di gioco, al fine d’interrompere l’azione di contropiede avviata dall’avversario-persona offesa, attingeva con un calcio la gamba dell’avversario, causandogli lesioni gravi, consistite nella frattura della tibia sinistra.

Il Giudice del primo grado giudicava, alla luce dei suddetti fatti, l’imputato colpevole del delitto di cui all’art. 590, commi 1 e 2, c.p., condannandolo, oltre alla pena stimata di giustizia, a risarcire il danno in favore della costituita parte civile.

In appello, il giudicante dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermando, nel resto, le statuizioni civili.

Ricorreva  allora in Cassazione l’imputato, lamentando – tra altro –  il vizio della violazione di legge, per non avere il Giudice ritenuto che il fatto in oggetto fosse stato scriminato dalla causa di giustificazione non codificata, che fa riferimento alla teoria dell’accettazione del rischio consentito.

La Corte, nella sentenza in commento, sembra aderire perfettamente all’orientamento giurisprudenziale già diffusamente consolidatosi sul punto, secondo cui – attesa la rilevanza costituzionale dell’attività sportiva – è consentita l’applicazione analogica all’attività sportiva delle disposizioni dettate dalla legge per le scriminanti comuni. Si tratterebbe infatti un’analogia in bonam partem con riguardo a norme che non hanno natura penale (le scriminanti), in quanto espressione di principi generali dell’ordinamento.

Quanto ai limiti entro cui l’attività sportiva può essere assoggettata a un giudizio di liceità, viene in rilievo il limite del rischio consentito. Esso, invero, non coincide con il rigoroso rispetto delle regole del gioco, essendo piuttosto connesso all’esercizio dell’attività sportiva e al normale comportamento dei contendenti nel suo svolgimento. Il limite del rischio consentito ha tra l’altro carattere relativo, variando in relazione al carattere agonistico o dilettantistico dell’attività sportiva, alla natura necessariamente o eventualmente violenta dell’attività (es. boxe, judo, etc.), alla natura di allenamento, o di gara amichevole piuttosto che competitiva.

Ne consegue allora che l’operatività della scriminante in parola va esclusa, con la conseguente antigiuridicità del fatto: “a) quando si constati assenza dì collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva; b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l’esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l’esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento); c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell’attività”.

Viceversa, prosegue la Corte, deve escludersi l’antigiuridicità del fatto ed il conseguente obbligo di

risarcimento: “a) ove si tratti di atto posto in essere senza volontà lesiva e nel rispetto del regolamento e l’evento di danno sia la conseguenza della natura stessa dell’attività sportiva, che importa contatto fisico; b) ove, pur in presenza di una violazione della norma regolamentare, debba constatarsi assenza della volontà di ledere l’avversario e il finalismo dell’azione correlato all’attività sportiva”.

Alla luce di tali argomentazioni, la Corte giunge ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata, poiché il fatto ascritto all’imputato non costituisce reato.

Ad avviso della Corte infatti, l’infortunio arrecato dall’imputato all’avversario avveniva in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell’incontro), tra l’altro nel contesto di un incontro rilevante per quel girone del campionato di eccellenza. La condotta dell’imputato appariva, inoltre, manifestamente indirizzata a interrompere l’azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo d’impossessarsi regolarmente del pallone. Ecco allora che sebbene la condotta dell’imputato possa certamente apparire meritevole di “censura intranea all’ordinamento sportivo”, non la si può certamente ritenere antigiuridica e quindi fonte di responsabilità penale, in quanto coperta dalla scriminante di cui s’è discorso.

Per un approfondimento sulle cause di giustificazione del reato, v. http://deiurecriminalibus.altervista.org/le-cause-di-giustificazione/ .

Per scaricare la sentenza in commento :Cass. pen. 9559_2015

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.