Colpa medica: Cassazione sezione IV, 16 marzo 2017, n. 16140

Cassazione sezione IV, 16 marzo 2017, n. 16140 : colpa medica – nesso di causalità – causalità omissiva – imperizia – d.d.l. gelli


RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Ancona, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di San Benedetto del Tronto, il 28.11.2013, nei confronti di F., in riferimento al reato di cui all’art. 590, commi 1 e 2, cod. pen., ha rideterminato la pena originariamente inflitta ed ha ridotto a euro 15.000,00 l’entità della provvisionale immediatamente esecutiva, già disposta dal Tribunale nella maggior somma di euro 100.000,00.

Al prevenuto, nella sua qualità di medico chirurgo responsabile della U.O. di Chirurgia Generale presso la clinica S.M., si contesta di avere provocato, in danno di L.D.R., gli esiti lesivi indicati in rubrica, con indebolimento permanente dell’organo della digestione ed importanti esiti cicatriziali addominali e toracici. Per colpa consistita nella programmazione ed effettuazione dell’intervento chirurgico per asportazione per via laparoscopica di neoformazione della giunzione gastroesofagea presso una struttura priva delle necessarie apparecchiature tecniche ed in assenza di controllo endoscopico; per aver omesso di effettuare indagini non invasive, che avrebbero consentivo di accertare l’esito dell’interveto e l’eventuale presenza di fistola; e per aver ritardato, pur dopo il riscontro della presenza di una fistola esofago-mediastinica, il trasferimento della paziente presso un centro clinico attrezzato.

2. Avverso la richiamata sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore. La parte contesta l’affermazione di responsabilità penale, osservando che i giudici di merito hanno omesso di considerare gli elementi a discarico emergenti dalle deposizioni dei testi e dalle perizie. Osserva che nell’atto di appello erano state indicate le corrette condotte poste in essere dal F. con la precisazione che la vicenda clinica era caratterizzata dalla perdita di fiducia della paziente e dei suoi familiari nel medico curante; evenienza che aveva impedito al F. di seguire la D.R. sino alla guarigione.

Sotto altro aspetto, il deducente rileva che la Corte di Appello è incorsa nel travisamento delle prove. Rileva che al momento del trasferimento della paziente presso altra struttura la ragazza stava bene, se pure con una fistola da trattare; e considera che non vi è prova che ove la paziente fosse rimasta affidata alle cure del prof. F., che aveva optato per un trattamento conservativo, non si sarebbe avuto un esito migliore di quello ottenuto nel diverso policlinico, ove venne effettuata la resezione esofago-gastrica.

Il ricorrente rileva che la Corte di Appello non ha risolto le denunziate mancanze contenute nella sentenza di primo grado; osserva che il Collegio ha effettuato un lettura parziale delle risultanze istruttorie; e invoca l’annullamento senza rinvio della decisone ricorsa.

L’esponente denuncia poi il vizio motivazionale e il travisamento della prova. Al riguardo, il ricorrente si sofferma sui profili di colpa contestati all’imputato, osservando che non sussiste il denunciato profilo di imprudenza, per aver affrontato un intervento chirurgico presso una struttura sanitaria inadeguata, posto che il leiomioma si presenta in pochissimi casi, mentre F. ha effettuato interventi similari nell’ordine di varie centinaia per anno. Considera che non sussiste la mancanza di consenso informato, tenuto conto del documento presente in cartella clinica e delle dichiarazioni rese dai testi, peraltro ignorate di giudici; e neppure la mancanza di endoscopio e di esperienza specifica dell’imputato.

Quanto all’impiego dell’endoscopio, la parte sottolinea che i periti, nell’escludere l’impiego dell’endoscopio, non ebbero a vagliare adeguatamente le immagini fotografiche dell’intervento; e rileva che l’imputato in sede di esame ha spiegato di avere in realtà utilizzato l’endoscopia. Rispetto alla colpa per imperizia afferente al difetto della sutura esofagea, il deducente considera che sul punto nessuna delle relazioni peritali addebita alcuna colpa al chirurgo.

La parte confuta poi le valutazioni effettuate dalla Corte territoriale, rispetto alla prova con blu metilene ed alla effettuazione di RX con Gastrografin, eseguita secondo l’imputato il 20.01.2010. Il ricorrente sottolinea che l’impiego dell’endoscopio, in caso di sospetta deiscenza, è fortemente controindicato; osserva che dopo l’intervento del 24.01.2010, di risoluzione della sepsi, la paziente migliorò; e considera che all’impiego di uno stent esofageo si oppongono plurime opinioni scientifiche. Il deducente completa quindi la ricostruzione del percorso clinico, osservando che inopinatamente l’affermazione di responsabilità ha riguardato anche la lesione al colon intervenuta, ad opera del radiologo, nel corso della effettuazione della TAC.

Il ricorrente si sofferma quindi sul tema del nesso causale tra la condotta e l’evento, pure concentrandosi sulle modalità di trattamento della fistola, da parte dei sanitari del secondo ospedale. Osserva che nel caso si profilavano diverse scelte terapeutiche; e considera che non vi è alcuna prova che proseguendo nella scelta conservativa che era stata effettuata dal F. la paziente non sarebbe guarita. La parte rileva che neppure vi è prova che ipotizzando sin dall’inizio il ricovero della paziente presso una struttura sanitaria maggiormente attrezzata l’esito finale sarebbe stato diverso e migliore per la salute dalla paziente.

Il deducente considera di meritare di andare esente dalla condanna anche risarcitoria; e che non si giustifica la condizione apposta alla sospensione condizionale della pena. Sottolinea che nel caso, pure a fronte di doppia conforme, sussistono i presupposti del denunciato travisamento della prova, posto che i giudici di entrambi i gradi di giudizio sono incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze acquisite.

La parte ha dedotto istanza di sospensione dell’esecuzione della condanna civile ex art. 612 cod. proc. pen., che è stata separatamente censita da questa Suprema Corte, con ordinanza del 20.01.2017.

3. La parte civile L.D.R., con memoria, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e in subordine il rigetto dell’impugnazione. La parte osserva che il ricorrente omette di confrontarsi con il percorso argomentativo sviluppato dai giudici del gravame. Richiama il contenuto dell’imputazione; e rileva che la tesi difensiva trasmoda in una modificazione del fatto contestato.

La parte civile sottolinea che il dato più importate della contestazione elevata al F. concerne il mancato uso dell’endoscopio esofagogastricoesofageo pediatrico, strumento che avrebbe ridotto i tempi di individuazione della fistola, contenuto la durata della malattia ed evitato la resezione dell’esofago. La parte civile si sofferma quindi sul denunciato travisamento della prova. Confuta le affermazioni contenute nel ricorso; rileva che il caso clinico in esame, secondo la legge di copertura causale, aveva un 40% di probabilità di successo; e considera che l’uso di endoscopio pediatrico avrebbe consentito alla paziente di guarire senza necessità di resezione dell’esofago ovvero di beneficiare di tempi di malattia fortemente ridotti.

Quanto alla richiesta di sospensione dell’esecuzione della condanna civile, la parte osserva che sono in corso trattative tra le parti; e che la prospettiva di una remissione di querela, prima della sentenza della Corte di legittimità, appare non prossima all’inverarsi, stante la sproporzione tra l’offerta dell’imputato ed il danno subito dalla paziente.

4. Il ricorrente ha depositato motivi aggiunti. L’esponente ribadisce che l’impianto motivazionale della sentenza impugnata risulta deficitario sia in relazione al profilo di colpa ascritto al F., sia rispetto alla individuata relazione causale tra la condotta del sanitario e l’evento lesivo indicato in imputazione. Il ricorrente sottolinea che gli stessi periti hanno chiarito che l’apertura e la asportazione della mucosa, durante l’enucleazione di un leiomioma della giuntura gastroesofagea, non dipende da un comportamento incongruo del chirurgo; e rileva che la Corte di Appello ha omesso di confrontarsi con il predetto argomento. Ribadisce che in occasione dell’intervento del 20.01.2010 l’esame con gastrografin venne puntualmente effettuato, con esito negativo, se pure in cartella clinica manchi il relativo referto; e sottolinea che l’oggettiva incertezza circa il fatto che la fistola, in tale data, fosse già insorta, non consente di muovere nei confronti del F. un fondato rimprovero di colpa.

Il deducente ripercorre quindi la sequela comportamentale posta in essere dal F. all’indomani dell’intervento del 12.01.2010; e considera che la Corte di Appello ha omesso di apprezzare tali elementi fattuali. Sotto altro aspetto, la parte osserva che F., una volta accertata la presenza della fistola, decise consapevolmente di non posizionare immediatamente uno stent esofageo e neppure di effettuare un intervento di esofagectomia, privilegiando la metodica attendista e conservativa, maggiormente accreditata nella comunità scientifica.

Al riguardo, osserva che la Corte di Appello apoditticamente ha affermato che tale scelta dipese dalle carenze strutturali della Casa di Cura S.M.. Sul punto, il ricorrente osserva che a seguito del trasferimento della ragazza presso altra struttura, per l’intervenuta frattura del rapporto fiduciario medico paziente, i sanitari che presero in carico la paziente procedettero, privilegiando una diversa metodica, alla collocazione di uno stent, metodica che non produsse peraltro alcun risultato favorevole, tanto che successivamente venne praticato l’intervento di resezione esofagogastrica.

A margine di tali rilievi, il deducente considera che la valutazione sui profili di colpa ascritti al prevenuto non ha tenuto conto degli esiti sortiti, in concreto, dalla metodica che al F. si ascrive di non aver immediatamente praticato. Rileva inoltre che, secondo la letteratura medica, il tasso di successo del posizionamento di uno stent non dipende dal ritardo nella diagnosi. Nel soffermarsi sul tema causale, la parte rileva che la degenza della paziente presso la Casa di Cura S.M. non può qualificarsi come stato di malattia, trattandosi di un lasso temporale necessario a fronteggiare la specifica situazione patologica. Considera che i medici operanti presso il diverso centro clinico ove la paziente venne trasferita, dopo aver effettuato il fallimentare posizionamento dello stent, attesero comunque diverse settimane, prima di effettuare l’intervento di resezione. La parte rileva che le condizioni in cui si trovava la paziente al momento del trasferimento non erano compromesse; e che il mutamento di trattamento terapeutico dipese dalla diversa scuola di pensiero seguita dai medici della nuova struttura. Considera infine che non vi è prova che le compromissioni finali subite dalla paziente, per effetto dell’intervento di resezione effettuato presso il Policlinico S.D., dipendano causalmente dalle scelte terapeutiche effettuate originariamente dal dott. F.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, atteso che il percorso motivazionale posto a fondamento della sentenza impugnata risulta vulnerato dalle dedotte lacune argomentative, sia in riferimento al tema della riferibilità causale degli eventi patologici (danno alla funzione digestiva, danno estetico e altro) alla condotta attiva ed omissiva del sanitario, sia rispetto ai profili di rimproverabilità colposa della medesima condotta.

2. Si procede in primo luogo ad esaminare il tema della causalità. Giova richiamare i principi che, secondo diritto vivente, governano l’apprezzamento giudiziale della prova scientifica da parte del giudice di merito e che presiedono al controllo che, su tale valutazione, può essere svolto in sede di legittimità. Nel delineare l’ambito dello scrutinio di legittimità, secondo i limiti della cognizione dettati dall’art. 609, cod. proc. pen., si è chiarito che alla Corte regolatrice è rimessa la verifica sulla ragionevolezza delle conclusioni alle quali è giunto il giudice di merito, che ha il governo degli apporti scientifici forniti dagli specialisti.

La Suprema Corte ha evidenziato, sul piano metodologico, che qualsiasi lettura della rilevanza dei saperi di scienze diverse da quella giuridica, utilizzabili nel processo penale, non può avere l’esito di accreditare l’esistenza, nella regolazione processuale vigente, di un sistema di prova legale, che limiti la libera formazione del convincimento del giudice; che il ricorso a competenze specialistiche con l’obiettivo di integrare i saperi del giudice, rispetto a fatti che impongono metodologie di individuazione, qualificazione e ricognizione eccedenti i saperi dell’uomo comune, si sviluppa mediante una procedimentalizzazione di atti (conferimento dell’incarico a periti e consulenti, formulazione dei relativi quesiti, escussione degli esperti in dibattimento) ad impulso del giudicante e a formazione progressiva; e che la valutazione di legittimità, sulla soluzione degli interrogativi causali imposti dalla concretezza del caso giudicato, riguarda la correttezza e conformità alle regole della logica dimostrativa dell’opinione espressa dal giudice di merito, quale approdo della sintesi critica del giudizio (Sez. 4, sentenza n. 80 del 17.01.2012, dep. 25.05.2012, n.m.).

Chiarito che il sapere scientifico costituisce un indispensabile strumento, posto al servizio del giudice di merito, deve rilevarsi che, non di rado, la soluzione del caso posto all’attenzione del giudicante, nei processi ove assume rilievo l’impiego della prova scientifica, viene a dipendere dall’affidabilità delle informazioni che, attraverso l’indagine di periti e consulenti, penetrano nel processo. Si tratta di questione di centrale rilevanza nell’indagine fattuale, giacché costituisce parte integrante del giudizio critico che il giudice di merito è chiamato ad esprimere sulle valutazioni di ordine extragiuridico emerse nel processo.

Il giudice deve, pertanto, dar conto del controllo esercitato sull’affidabilità delle basi scientifiche del proprio ragionamento, soppesando l’imparzialità e l’autorevolezza scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo conoscenze tecniche e saperi esperienziali. E, come sopra chiarito, il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare, attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito ha espresso nella sentenza impugnata. Del resto, la Corte regolatrice ha anche recentemente ribadito il principio in base al quale il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate. La Suprema Corte è cioè chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 43786 del 17/09/2010, dep. 13/12/2010, Rv. 248944; Sez. 4, sentenza n. 42128 del 30.09.2008, dep. 12.11.2008, n.m.).

E si è pure chiarito che il giudice di merito può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire. Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Suprema Corte, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della perizia (o della consulenza), poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento (vedi Sez. 4, sentenza n. 492 del 14.11.2013, dep. 10.01.2014, n.m.).

Tanto chiarito, deve osservarsi che, con riguardo all’apprezzamento della prova scientifica, afferente specificamente all’accertamento del rapporto di causalità, la giurisprudenza di legittimità ha osservato che deve considerarsi utopistico un modello di indagine causale, fondato solo su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali. Ciò in quanto, nell’ambito dei ragionamenti esplicativi, si formulano giudizi sulla base di generalizzazioni causali, congiunte con l’analisi di contingenze fattuali.

In tale prospettiva, si è chiarito che il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante; e che è invece importante che la generalizzazione esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi (cfr. Sez. U, sentenza n. 30328, in data 11.9.2002, Rv. 222138). Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, cioè, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.

Con particolare riferimento alla casualità omissiva – che pure viene in rilievo nel caso di specie – si osserva poi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il seguente itinerario probatorio: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata “probabilità logica” (Sez. U, sentenza n. 30328, in data 11.9.2002, cit.); e che le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto quando l’apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica (Sez. 4, Sentenza n. 43786 del 17/09/2010, dep. 13/12/2010, Rv. 248943).

Ai fini dell’imputazione causale dell’evento, pertanto, il giudice di merito deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto all’imputato dall’ordinamento. Si tratta di insegnamento da ultimo ribadito dalle Sezioni Unite che si sono soffermate sulle questioni riguardanti l’accertamento giudiziale della causalità omissiva ed i limiti che incontra il sindacato di legittimità, nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito (cfr. Sez. U, sentenza n. 38343 del 24.04.2014, dep. 18.09.2014, Rv. 261106).

Nella sentenza ora richiamata, le Sezioni Unite hanno sviluppato il modello epistemologico già indicato nella citata pronunzia del 2002, delineando un modello dell’indagine causale capace di integrare l’ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico, chiarendo che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

2.1 Applicando i richiamati principi al caso di specie, per condivise ragioni, deve osservarsi che la Corte di Appello non ha offerto una conferente spiegazione della riferibilità causale degli eventi lesivi occorsi alla paziente, rispetto alle scelte ed alle pratiche terapeutiche poste in essere dal F.

La Corte territoriale ha affermato che gli eventi lesivi occorsi alla paziente, tra i quali vengono annoverati i periodi di degenza della giovane presso la Casa di Cura S.M., dipendono dal fatto che F. praticò un intervento chirurgico in una struttura priva delle necessarie apparecchiature. L’assunto, di certa suggestione rispetto al tema che occupa, non viene altrimenti sviluppato dai giudici di merito, con riferimento allo specifico decorso clinico che caratterizza il caso di specie.

La Corte territoriale, infatti, muove dal rilievo che F. non utilizzò l’endoscopio; e che la fistola venne perciò diagnosticata con grave ritardo. Si tratta di un ragionamento probatorio carente, giacché il Collegio omette del tutto di confrontarsi con le allegazioni difensive, supportate da prove dichiarative, conducenti a ritenere che in realtà venne impiegata l’endoscopia intraoperatoria. Oltre a ciò, in sentenza non viene analizzato l’ulteriore profilo, che assume valenza dirimente, rispetto all’indagine causale: il fatto che la fistola, nel momento in cui si addebita a F. di aver omesso di utilizzare l’endoscopio, fosse già insorta e quindi percepibile dal sanitario.

Le evidenziate lacune argomentative inficiano la conclusione rassegnata dalla Corte distrettuale, in ordine alla riferibilità causale di tutti gli eventi lesivi successivamente insorti alla condotta del F. compresi quelli manifestatisi dopo il trasferimento della ragazza presso altra struttura sanitaria. I medici di S.D. Milanese, infatti, praticarono la metodica che al F. si ascrive di non aver tempestivamente realizzato, senza ottenere alcun utile risultato terapeutico, tanto che dovettero successivamente procedere alla effettuazione di un intervento di resezione.

Il ragionamento seguito dalla Corte di merito risulta sostenibile soltanto assumendo che il tempestivo posizionamento dello stent avrebbe sortito esiti salvifici; ma si tratta di circostanza che non risulta adeguatamente esplorata, in riferimento alla relativa legge di copertura indicata dalla scienza medica, nell’ambito del giudizio predittivo al quale è chiamato il giudice del fatto, nella ricostruzione della dinamica causale tra condotta omissiva ed evento naturalistico, secondo l’insegnamento del diritto vivente, che sopra si è ricordato. Il caso clinico in esame del resto palesa una intrinseca complessità, posto che l’insorgenza della fistola, secondo quanto riferito dagli stessi giudici di merito (pag. 43 sentenza della Corte di Appello), poteva essere curata con le terapie conservative (prescelte dal F.), anziché con quelle chirurgiche, successivamente realizzate.

3. Le evidenziate lacune motivazionali impongono l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, affinché i giudici procedano a nuovo esame della questione concernente la riferibilità causale degli eventi lesivi alla condotta attiva ed omissiva posta in essere dal sanitario odierno imputato, alla luce dei principi di diritto sopra richiamati.

Non di meno, per completezza argomentativa, si svolgono i rilievi che seguono, che riguardano specificamente i profili di colpa che vengono ascritti al F. La Corte di Appello ha affermato che F. omise di informare adeguatamente la paziente, sui rischi e sulle possibili complicanze dell’intervento chirurgico. Anche rispetto a tale profilo deve convenirsi con le difese nel rilevare che il Collegio, nell’affermare che vi fu una carenza informativa, nella acquisizione del consenso al trattamento sanitario, non si è confrontato con le risultanze acquisite agli atti, anche di natura documentale.

Tanto precisato, si osserva che il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte territoriale appare carente, anche in riferimento al tema della ascrivibilità colposa della condotta omissiva, che si assume sia stata posta in essere dal sanitario. Occorre considerare che già nelle more del giudizio di primo grado è stata inserita nell’ordinamento l’inedita fattispecie, in tema di responsabilità sanitaria, dettata dall’art. 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, ove è stabilito: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. Richiamando, in via di estrema sintesi, l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel procedere alla ermeneusi della norma ora citata, si osserva che la Corte regolatrice ha chiarito che la novella esclude la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto a quelle condotte lesive che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica. In particolare, si è evidenziato che la norma ha dato luogo ad una “abolitio criminis” parziale degli artt. 589 e 590 cod. pen., avendo ristretto l’area penalmente rilevante individuata dalle predette norme incriminatrici, giacché oggi vengono in rilievo unicamente le condotte qualificate da colpa grave (Sez. 4, Sentenza n. 11493 del 24/01/2013, dep. 11/03/2013, Rv. 254756; Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, Rv. 255105).

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito quale incidenza debba assegnarsi alla nuova normativa, rispetto ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della novella. Occorre in questa sede ribadire che la parziale abrogazione, determinata dall’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590, cod. pen., qualora il soggetto agente sia un esercente la professione sanitaria, determina un problema di diritto intertemporale, che trova regolamentazione alla luce della disciplina legale.

La restrizione della portata dell’incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi: l’individuazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l’attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche. Sulla scorta di tali rilievi, la giurisprudenza ha precisato: che nell’ambito delle richiamate fattispecie incriminatrici la rilevanza penale è da ritenersi circoscritta alla sola colpa grave (Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, cit.); che la citata riforma in tema di responsabilità sanitaria ha realizzato un caso di abolitio criminis parziale; che si è in presenza di norma incriminatrice speciale, che ha restretto l’area applicativa della norma anteriormente vigente. Il parziale effetto abrogativo ha comportato, conseguentemente, l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 2, comma 2, cod. pen., e quindi l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui agli artt. 3, legge n. 189/2012 e 589 e 590 cod. pen. Del resto, la giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte ha chiarito che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Sez. Un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197; Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607).

Ciò premesso, è dato cogliere la portata delle ricadute nel presente procedimento, pendente in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella del 2012, come delineate dal diritto vivente. Si è infatti chiarito che l’intervenuta parziale “abolitio criminis”, realizzata dall’art. 3 legge n.189 del 2012, in relazione alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connotate da colpa lieve, comporta che, nei procedimenti relativi a tali reati, pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella, il giudice, in applicazione dell’art. 2, comma secondo, cod. pen., deve procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, in particolare verificando se la condotta del sanitario poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266904).

Come si vede, la Corte distrettuale avrebbe dovuto verificare in punto di fatto se la condotta del F. poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida; e se la stessa fosse connotata da colpa grave, nella attuazione in concreto delle direttive scientifiche. Di converso, come emerge dal contenuto della sentenza impugnata, le valutazioni effettuate in ordine alla colpa prescindono da ogni considerazione rispetto al tema delle linee guida e delle prassi terapeutiche; e la verifica che è stata operata in riferimento al grado della colpa muove dal rilievo afferente alla ritenuta inadeguatezza delle apparecchiature presenti presso la Casa di Cura, questione che peraltro non è stata conferentemente analizzata, come sopra chiarito.

La sentenza in esame, per quanto detto, risulta vulnerata anche dalla evidenziata violazione di legge, rispetto alla mancata applicazione delle regole che erano applicabili al momento della celebrazione del processo, secondo le norme che disciplinano la successione nel tempo di disposizioni incriminatrici. La doglianza articolata in sede di ricorso per cassazione circa la carenza motivazionale rispetto ai profili di ascrivibilità colposa della condotta, del resto, refluisce quale denuncia di violazione della legge penale con riguardo al mancato accertamento dell’elemento soggettivo della fattispecie.

E’ poi appena il caso di rilevare che la Corte regolatrice ha precisato che la limitazione della responsabilità del medico in caso di colpa lieve, prevista dall’art. 3, comma primo, legge 8 novembre 2012, n.189, opera, se la condotta professionale è conforme alle linee guida ed alle buone pratiche, anche nella ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia. Ciò in quanto tale interpretazione è conforme al tenore letterale della norma, che non fa alcun richiamo al canone della perizia e risponde alle istanze di tassatività dello statuto della colpa generica delineato dall’art. 43 comma terzo, cod. pen. (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266903, cit.).Pertanto, pure a fronte del riferimento al profilo della negligenza, operato dalla Corte di Appello di Ancona, i giudici del merito non erano esonerati dal dovere di analizzare il caso concreto, secondo i richiamati parametri introdotti dalla novella del 2012.

4. Per tutte le ragioni sopra esposte si impone l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Perugia, posto che la Corte di Ancona dispone di una sola sezione, per nuovo esame della regiudicanda, alla luce dei principi di diritto sopra richiamati. Ai giudici del rinvio viene demandata la regolamentazione delle spese tra le parti, anche per il presente giudizio.

A questo punto della disamina preme evidenziare che il tema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, quale l’odierno imputato, per il reato di lesioni colpose, che viene devoluto al giudice del rinvio, è oggetto di un inedito intervento normativo, con il quale i legislatore pone mano nuovamente alla materia della responsabilità sanitaria, anche in ambito penale. Il riferimento è alla legge 8 marzo 2017, n. 24, recante Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, pubblicata in G.U. Serie Generale n. 64 del 17.3.2017, con termine di vacatio in data 01.04.2017. Ai fini di interesse, viene in rilievo l’art. 6, della citata legge n. 24 del 2017, che introduce l’art. 590-sexies cod. pen., rubricato Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario, ove è stabilito: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.

Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità é esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

E bene: non è chi non veda che l’entrata in vigore delle disposizioni ora richiamate assume rilievo nell’ambito del giudizio di rinvio, posto che la Corte di Appello, chiamata a riconsiderare il tema della responsabilità dell’imputato, dovrà verificare l’ambito applicativo della sopravvenuta normativa sostanziale di riferimento, disciplinante la responsabilità colposa per morte o lesioni personali provocate da parte del sanitario. E lo scrutinio dovrà specificamente riguardare l’individuazione della legge ritenuta più favorevole, tra quelle succedutesi nel tempo, da applicare al caso di giudizio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2, comma 4, cod. pen., secondo gli alternativi criteri della irretroattività della modificazione sfavorevole ovvero della retroattività della nuova disciplina più favorevole.

L’art. 6, comma 2, legge n. 24 del 2017, infatti, abroga espressamente il più volte citato articolo 3, comma 1, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189. A margine di tali rilievi, è poi appena il caso di rilevare che l’ordinamento conosce casi nei quali l’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per quanto riguarda ogni questione di diritto con essa decisa può risultare recessivo, come nel caso in cui si stata dichiarata costituzionalmente illegittima la normativa sulla cui base il principio di diritto era stato affermato nella sede rescindente (cfr. Sez. 3, n. 12532 del 29/01/2015 – dep. 25/03/2015, Castelletti e altro, Rv. 263001).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di Appello di Perugia cui rimette il regolamento delle spese tra le parti anche per questo giudizio.

Così deciso il 16 marzo 2017.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.