Tentato omicidio, univocità degli atti: Cassazione penale sezione I 31 agosto 2017 n. 39749

Cassazione penale sezione I 31 agosto 2017 n. 39749;

omicidio tentato – tentativo – elemento soggettivo.

Per affermare la sussistenza del tentativo di reato ex art. 56 c.p., il requisito dell’univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.

Testo della sentenza

Cassazione penale sezione I 31 agosto 2017 n. 39749

Rilevato in fatto

1. Con sentenza emessa il 28/05/2015 il G.U.P. del Tribunale di Milano, procedendo con rito abbreviato, giudicava F.L. colpevole del tentato omicidio di S.C. , condannandolo – concessa la diminuente per il rito alternativo con cui si procedeva – alla pena di anni otto di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge.

2. Con sentenza emessa il 25/01/2016 la Corte di appello di Milano, pronunciandosi sull’impugnazione proposta dall’imputato, confermava la decisione appellata, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali.

3. Da entrambe le sentenze di merito, pienamente convergenti sia sotto il profilo della responsabilità dell’imputato che sotto il profilo del trattamento sanzionatorio applicatogli, emergeva che la sera del (omissis) , a (…), il F. attentava alla vita di S.C. – con la quale intratteneva una relazione sentimentale che era in corso di scioglimento e in conseguenza della quale avevano convissuto nell’abitazione dove si svolgevano i fatti in contestazione – colpendola reiteratamente con un coltello da cucina e provocandole ferite multiple nella zona toracica e nell’area cranica, che ne imponevano l’immediato ricovero, eseguito presso l’Ospedale ‘San Carlo’ di Milano, a seguito del quale veniva rilasciata alla vittima una prognosi di guarigione di 40 giorni.

Gli accadimenti criminosi venivano accertati dai carabinieri della Stazione di (…) a seguito della richiesta di intervento formulata da una vicina di casa della vittima, P.A. , che allertava telefonicamente il servizio di emergenza, segnalando l’accoltellamento della S. .

Nell’immediatezza dei fatti, sulle scale condominiali e sul pianerottolo dal quale si accedeva all’abitazione della S. , le forze dell’ordine procedenti rinvenivano abbondanti tracce di sangue, successivamente attribuite alla stessa vittima; inoltre, all’interno dell’appartamento della persona offesa, venivano trovati un coltello da cucina e un paio di forbici, che presentavano copiosi residui ematici.

Dopo essere giunti sul posto, gli investigatori procedenti esaminavano sommariamente la vittima dell’aggressione, la quale riferiva di essere stata accoltellata dall’ex convivente, F.L. , il quale l’aveva aggredita perché non aveva accettato la sua decisione unilaterale di interrompere la loro relazione sentimentale.

Secondo quanto riferito dalla persona offesa nell’immediatezza dei fatti, la sera dell’accoltellamento, dopo essere tornata a casa, aveva trovato l’imputato che, entrato nell’abitazione della S. con delle chiavi di cui era in possesso, l’aspettava e le proponeva di fare un bagno assieme; richiesta, questa, che la vittima assecondava per paura di reazioni violente del suo fidanzato che, anche in passato, aveva mostrato una scarsa capacità di controllare le proprie pulsioni emotive.

I due fidanzati, quindi, dapprima facevano il bagno assieme e, subito dopo, si distendevano a letto svestiti; a questo punto, mentre la S. dava le spalle al fidanzato che le aveva proposto di sottoporla a un massaggio, il F. aveva iniziato a colpirla con un coltello.

Questa ricostruzione degli accadimenti criminosi, prospettata dalla S. sin dall’immediatezza dei fatti, veniva confermata in tutte le occasioni processuali in cui la vittima veniva esaminata, nelle quali precisava che l’aggressione del F. non costituiva un episodio isolato, essendo stata preceduta da numerosi alterchi verbali – conseguenti al deteriorarsi dei loro rapporti sentimentali e alla scelta della persona offesa di interrompere la loro relazione – in uno dei quali l’imputato l’aveva anche schiaffeggiata.

Nella prima fase delle indagini preliminari, veniva esaminata anche la vicina di casa della vittima, P.A. , che aveva allertato telefonicamente le forze dell’ordine, consentendo l’immediato soccorso della persona offesa, la quale evidenziava di non avere mai avuto la percezione che i rapporti tra il F. e la S. – che conosceva come conviventi – fossero deteriorati o connotati da dinamiche conflittuali, non avendo mai sentito urla provenienti dalla loro abitazione. La P. precisava anche che, la sera dell’accoltellamento, aveva sentito bussare veementemente alla sua porta la S. che, chiedendole aiuto e urlando, aveva accusato il fidanzato di averla aggredita, dicendo ripetutamente ‘è stato lui’.

Nel prosieguo delle indagini preliminari, il F. veniva esaminato dagli inquirenti, ammettendo il suo coinvolgimento nel ferimento della S. , ma fornendo una ricostruzione degli accadimenti criminosi non compatibile con quella prospettata dalla vittima fin dall’immediatezza dei fatti.

Il F. , in particolare, affermava che, la sera del (omissis) , era stata la S. ad aggredirlo con il coltello da cucina trovato insanguinato, dopo essere rientrata a casa in stato di ubriachezza.

Secondo la ricostruzione dell’imputato, l’accoltellamento conseguiva al fatto che la vittima, rientrata a casa, si spogliava davanti a lui e, constatato il suo atteggiamento impassibile, gli si era rivolta rabbiosamente; pertanto, lo aveva, dapprima, aggredito verbalmente, intimandogli di lasciare la sua abitazione e, successivamente, aveva iniziato a colpirlo con un coltello da cucina.

Nella colluttazione che ne era seguita, causata dal tentativo dell’imputato di difendersi, la S. si feriva involontariamente con il coltello da cucina che impugnava, ma, nonostante le ferite riportate accidentalmente, tentava di colpire ancora il fidanzato; il F. , a questo punto, prendeva delle forbici che trovava casualmente nella stanza dove si verifica lo scontro e iniziava a brandirle all’indirizzo della fidanzata, allo scopo di intimorirla e indurla in tal modo ad arrestarsi; la vittima, tuttavia, in preda alla rabbia e condizionata dallo stato di ebbrezza nel quale versava in quel momento, usciva dalla sua abitazione mettendosi a gridare e, dopo avere bussato alla porta d’ingresso dell’appartamento della vicina, iniziava ad accusarlo ingiustamente, dicendo di essere stata accoltellata.

Nel corso delle indagini preliminari, veniva anche eseguita una consulenza tecnica medico-legale, disposta dal pubblico ministero procedente ed eseguita dalla dottoressa C. , all’esito della quale si accertava che la S. , pur avendo riportato plurime ferite in varie aree corporee, non aveva corso il rischio di morire in conseguenza dell’accoltellamento subito per mano del F. , atteso che i fendenti che le erano stati sferrati dal ricorrente non avevano leso organi vitali.

In questa cornice, entrambi i Giudici di merito ritenevano attendibile e riscontrato il resoconto fornito dalla vittima sin dall’immediatezza dei fatti delittuosi in contestazione; mentre, non ritenevano credibile la ricostruzione degli accadimenti criminosi fornita dall’imputato, in ragione del fatto che la presenza di ferite multiple da arma da taglio e la loro dislocazione in varie parti del corpo della S. non erano compatibili con l’ipotesi del ferimento accidentale propugnata dal ricorrente.

Si riteneva, al contempo, corretto l’inquadramento dei fatti delittuosi contestati al F. , quale tentato omicidio e non quali lesioni personali aggravate, atteso che le sedi corporee della S. attinte dal coltello da cucina utilizzato dall’imputato, l’idoneità offensiva dell’arma impiegata e la reiterazione dei colpi inferti alla vittima non erano compatibili con un’ipotesi di reato differente da quella contestata.

Sulla scorta di tale compendio probatorio il F. veniva condannato alle pene di cui in premessa.

4. Avverso tale sentenza il F. , a mezzo dell’avv. Beatrice Salegna, ricorreva per cassazione, deducendo il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto degli elementi probatori acquisiti nei confronti del F. , in relazione al tentato omicidio oggetto di contestazione, sulla cui rilevanza processuale la Corte territoriale si esprimeva in termini assertivi e svincolati dalle emergenze probatorie.

Si deduceva, in proposito, l’incongruità del giudizio espresso dalla Corte di appello di Milano rispetto alla configurazione del tentato omicidio contestato al F. , che risultava smentita dalle acquisizioni probatorie e contraddetta dalla ricostruzione della dinamica dell’accoltellamento della S. , così come recepita nelle sottostanti decisioni.

Si evidenziava, al contempo, che la dinamica delle coltellate inferte alla S. , sferrate dal F. senza mirare a un preciso obiettivo vitale, come attestava la stessa consulenza tecnica del pubblico ministero, svolta dalla dottoressa C. nel corso delle indagini preliminari, non consentiva di ricondurre la condotta dell’imputato all’ipotesi del tentato omicidio, così come ascrittagli, dovendosi escludere nell’atteggiamento del ricorrente l’animus necandi indispensabile per la configurazione di tale fattispecie delittuosa.

Si riproponevano, in tal modo, le censure difensive espresse nei sottostanti giudizi dalla difesa del F. , secondo cui le coltellate sferrate all’indirizzo della S. erano state il frutto della concitazione degli accadimenti criminosi e che, in ogni caso, i fendenti erano stati inferti dal ricorrente senza alcuna volontà di ledere organi vitali della persona offesa, con modalità talmente superficiali come attestato dalla stessa sentenza impugnata – e repentine che non era possibile ipotizzare alcun intento omicida nell’azione posta in essere in danno della vittima.

Si ribadiva, pertanto, la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente fin dal giudizio di primo grado, che si riteneva avvalorata dall’accertamento svolto dal consulente tecnico del pubblico ministero, dottoressa C. , secondo cui l’accoltellamento della S. aveva luogo all’esito di un’accesa discussione, causata dalle tensioni sentimentali sedimentatesi nel tempo, in conseguenza delle quali aveva luogo il ferimento della vittima che – anche a prescindere dalla dinamica degli accadimenti criminosi, pur censurate dal ricorrente – presentava caratteristiche tali da escludere la volontà di uccidere la vittima da parte dell’imputato.

Queste ragioni imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. Il ricorso proposto nell’interesse di F.L. è inammissibile.

2. Con il ricorso in esame il F. , a mezzo del suo difensore, deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, conseguente al fatto che la decisione censurata risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto degli elementi costitutivi del tentato omicidio di S.C. , così come contestato all’imputato.

Secondo la difesa del ricorrente, la Corte di appello di Milano aveva travisato le evidenze probatorie, dalle quali si evinceva in termini incontrovertibili che il F. non intendeva attentare alla vita della S. , non avendo impresso alle coltellate inferte alla vittima una forza tale da fare penetrare la lama dell’arma da taglio in modo così approfondito da raggiungere organi vitali.

Tali connotazioni di offensività dell’azione criminosa – attestate dagli esiti dell’accertamento svolto dal consulente tecnico del pubblico ministero, dottoressa C. – rendevano evidente che il ferimento della S. doveva ritenersi provocato casualmente, come conseguenza della concitazione degli accadimenti criminosi e delle modalità con cui la colluttazione si era sviluppata tra i due fidanzati.

Osserva il Collegio che il presupposto sul quale il ricorrente fonda il suo assunto difensivo, secondo cui l’aggressione armata dell’imputato in danno della S. era inidonea a provocarne la morte, risulta smentito dalla sequenza dell’azione delittuosa – correttamente ricostruita nel provvedimento in esame caratterizzata dall’uso di un coltello da cucina con cui venivano provocate alla vittima numerose ferite, localizzate nell’area toracica e nella zona cranica, in conseguenza delle quali veniva ricoverata presso l’Ospedale (omissis) Sui profili valutativi censurati dalla difesa del F. , invero, la sentenza di appello si soffermava con un percorso motivazionale immune da censure, evidenziando – sulla base di un vaglio ineccepibile degli esiti dell’accertamento medico-legale svolto dalla dottoressa C. – che l’azione delittuosa dell’imputato era certamente idonea a determinare la morte della S. , avendo provocato i colpi di coltello inferti dal ricorrente la penetrazione dell’arma da taglio nel torace e nella testa della vittima, in aree corporee nelle quali si trovano numerosi organi vitali.

Si consideri, in proposito, il passaggio motivazionale esplicitato a 11 del provvedimento impugnato, nel quale la Corte territoriale evidenziava come costituisse un elemento probatorio incontroverso quello secondo cui il ricorrente avesse accoltellato la propria fidanzata nel corso di un’articolata sequenza omicida. Dalla ricostruzione di tale sequenza omicida discendeva la correttezza della contestazione elevata al F. , desumibile ‘dall’uso di un mezzo offensivo potenzialmente ‘micidiale’, dalla reiterazione, pluralità e direzione dei colpi, inferti da distanza ravvicinata, con notevole forza (…) ed in parti del corpo indubbiamente vitali, quali il torace e l’addome, dalla sussistenza di un adeguato movente, dall’intensità, infine, della determinazione, desumibile da quel lucido e devastante infierire nel colpire la P.O.’.

Sulla scorta di tale ricostruzione dell’aggressione attuata dal ricorrente nei confronti della S. , che deve essere necessariamente correlata alle circostanze di tempo e di luogo nelle quali maturava la sua determinazione omicida, il Giudice di appello milanese formulava un giudizio affermativo sull’idoneità degli atti posti in essere dall’imputato a provocare la morte della vittima, nel valutare la quale è necessario richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: ‘L’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio ‘ex ante’, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto’ (cfr. Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, Resa, Rv. 248305).

2.1. La difesa del ricorrente censurava ulteriormente la sentenza impugnata sotto il profilo dell’assenza di prova dell’univocità degli atti che si concretizzavano nell’ipotesi delittuosa contestata al F. , a sua volta incidente sull’assenza di prova della volontà omicida del ricorrente.

Osserva, in proposito, il Collegio che l’univocità degli atti costituisce il presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa riconducibile all’alveo applicativo dell’art. 56 cod. pen.. Tutto questo risponde all’esigenza di ricostruire la volontà dell’agente rispetto all’aggressione del bene giuridico protetto della norma, conformemente a quanto statuito da questa Corte, secondo cui: ‘In tema di tentativo, il requisito dell’univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo’ (cfr. Sez. 4, n. 7702 del 29/01/2007, Alasia, Rv. 236110).

Ne discende che il requisito dell’univocità degli atti, così come prefigurato dall’art. 56, comma primo, cod. pen., pur incidendo sulla valutazione dell’elemento soggettivo del reato di volta in volta contestato, deve essere accertato sulla base delle connotazioni materiali della condotta illecita, nel senso che gli atti posti in essere dall’imputato devono possedere, tenuto conto del contesto in cui sono inseriti, l’attitudine a rendere manifesto il proposito criminoso perseguito, desumibile sia dagli atti esecutivi sia da quelli preparatori dell’azione (cfr. Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, D’Angelo, Rv. 254106; Sez. 2, n. 40912 del 24/09/2015, Amatista, Rv. 264589).

In questo contesto, non può non rilevarsi che la dinamica dell’aggressione della S. deve ritenersi dimostrativa del fatto che l’azione armata del F. conseguisse a una volontà omicida persistente e univocamente orientata nella direzione prefigurata dalla sentenza impugnata, consentendo di affermare che il ricorrente avesse voluto colpire la persona offesa noncurante del rischio di causarne la morte. Si consideri, in particolare, il passaggio motivazionale della sentenza impugnata, esplicitato a pagina 11, in cui si evidenziava correttamente che l’accoltellamento patito dalla S. per mano del ricorrente ‘aveva causalmente determinato una massiva situazione dall’esito potenzialmente letale, e non evolutasi nell’evento morte solo per il tempestivo soccorso anche chirurgico (…)’.

2.1.1. In questa cornice motivazionale, con la quale il ricorso in esame non si confrontava, limitandosi a riproporre le censure sollevate nel giudizio di appello, occorre evidenziare che l’azione aggressiva del F. , sviluppandosi attraverso un’azione sequenziale articolata e una pluralità di fasi esecutive, non consentiva di dubitare della volontà omicida del ricorrente, che aveva dapprima cercato di uccidere la S. ferendola, con un coltello da cucina, al torace e alla testa e successivamente – nonostante i tentativi di difendersi della vittima, attestati dalle ferite riportate alle mani – aveva continuato a colpirla, interrompendosi solo in conseguenza delle richieste disperate di aiuto della fidanzata, nel frattempo uscita dalla sua abitazione, rivolte alla vicina di casa P.A. .

Ne discende che, nel caso di specie, l’evento delittuoso deliberato dal ricorrente non veniva raggiunto per uno sviluppo imprevedibile degli avvenimenti, costituito dall’inaspettata reazione della S. , la quale, nonostante la violenza dell’aggressione armata subita e le ferite riportate a seguito dell’accoltellamento, invocava disperatamente l’aiuto della vicina di casa, riuscendo in tal modo a interrompere l’azione omicida del F. , con un comportamento autonomo rispetto all’aggressione del fidanzato. Sul punto, la motivazione fornita dal provvedimento impugnato a pagina 5 – perfettamente sovrapponibile a quella resa dalla sentenza di primo grado, dove si richiamava il comportamento reattivo della persona offesa – appare ineccepibile, laddove si affermava che il racconto della vittima trovava ‘plurimi riscontri: nelle dichiarazioni della vicina di casa P. e nella documentazione medica attestanti lesioni, una ventina di ferite, del tutto compatibili con la riferita dinamica dell’aggressione’.

Occorre, pertanto, ribadire che la dinamica del tentato omicidio, alla quale si è fatto riferimento nei paragrafi 2 e 2.1, cui si rinvia, unitamente alle ferite riportate dalla S. nell’area toracica e nella zona cranica, deve ritenersi dimostrativa del fatto che l’aggressione armata dell’imputato conseguisse a una volontà omicida univocamente orientata, atteso che la sequenza dell’azione delittuosa impone di affermare che il ricorrente avesse voluto colpire la fidanzata allo scopo di ucciderla. Si consideri, in particolare, il passaggio della sentenza, esplicitato a pagina 11, in cui la Corte territoriale, richiamando la dinamica del ferimento della vittima e le regioni corporee attinte dai fendenti del ricorrenti, affermava che gli elementi di giudizio ‘dimostrano inequivocabilmente la direzione causale univoca dell’azione di F. a ledere l’integrità fisica della P.O., la concreta idoneità del suo volontario agire a produrre l’evento letale, nonché la sussistenza dell’intento omicida (…)’.

Ricostruita in questi termini la vicenda processuale, la Corte di appello di Milano ha correttamente valutato il compendio probatorio acquisito, vagliandolo alla luce delle circostanze di tempo e di luogo attraverso le quali l’azione omicida del F. si sviluppava in danno della S. , sottraendosi a qualunque censura di legittimità. Infatti, la ricostruzione della dinamica dell’aggressione posta in essere dall’imputato in danno della fidanzata – iniziata all’interno dell’abitazione di quest’ultima e arrestatasi in conseguenza delle urla di aiuto rivolte dalla S. alla vicina di casa – depone univocamente nel senso che il ricorrente, dopo avere tentato di uccidere la vittima, accoltellandola, non abbia volontariamente abbandonato l’azione, ma vi sia stato costretto da una serie di circostanze, oggettive e soggettive, quali l’imprevista reazione della S. e la sua richiesta disperata di aiuto.

Sul punto, occorre richiamare conclusivamente la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo la quale, qualora la possibilità esecutiva originariamente prefigurata dall’agente sia venuta concretamente meno, in conseguenza dell’impossibilità materiale di realizzare l’attività delittuosa deliberata dall’agente, oppure, sul piano soggettivo, per un’impossibilità esecutiva erroneamente ritenuta dal soggetto attivo del reato, deve ritenersi sussistente, come nel caso in esame, l’ipotesi del delitto tentato (cfr. Sez. 2, n. 44148 del 07/07/2014, Guglielmino, 260855; Sez. 1, n. 9015 del 04/02/2009, Petralito, Rv. 242877).

2.1.2. Tali considerazioni impongono di ritenere inammissibile il ricorso in esame.

3. Per queste ragioni, il ricorso proposto da F.L. deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in duemila euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro alla Cassa delle ammende.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.