Lo stato dell’arte del concorso esterno in associazione di tipo mafioso

La fattispecie delittuosa di cui all’art. 416-bis c.p. (Associazione di tipo mafioso) ha preso vita nel nostro ordinamento con l. n. 646/1982, in virtù di molteplici ragioni giustificatrici:

  • Evidenziare l’alterità del fenomeno mafioso da quello delle altre organizzazioni criminali;
  • Rendere manifesta la lotta dello Stato contro tale fenomeno;
  • Superare l’inadeguatezza dell’art. 416 c.p. (Associazione per delinquere) a descrivere i sodalizi mafiosi la cui offensività si situa non solo negli obbiettivi, ma soprattutto nel metodo dell’associazione.

L’elemento specializzante l’associazione mafiosa consiste infatti nel potere di intimidazione che gli associati sono in grado di infondere nella popolazione e nello sfruttamento della situazione di assoggettamento e omertà che ne deriva, essendo la popolazione indotta a non denunciare e a non collaborare con la Giustizia per paura di subire ritorsioni personali.

Gli artt. 416 e 416 bis c.p. sono entrambi reati a concorso necessario. Nel nostro ordinamento è infatti possibile distinguere due tipologie di concorso: quello eventuale e quello necessario. Ricorre il concorso eventuale di persone nel reato, allorché un reato descritto in forma monosoggettiva viene realizzato da due o più soggetti anche con contributi atipici, purché rilevanti dal punto di vista causale; sicché tutti coloro che con la propria condotta hanno concorso a commettere il medesimo reato saranno assoggettati alla pena per questo stabilita, ai sensi del combinato disposto dell’art. 110 c.p. con l’articolo di parte speciale del codice che incrimina il fatto di reato. Il concorso necessario ricorre invece quando è la stessa norma di parte speciale a descrivere il fatto come realizzabile mediante il concorso di due o più persone. Tipico esempio di reati a concorso necessario sono appunto i reati associativi, i quali stabiliscono che per la loro configurazione sia necessario l’accordo di tre o più persone.

Focalizzando un attimo l’attenzione sull’accordo, può notarsi come esso nell’associazione abbia carattere di stabilità ed abbia ad oggetto una serie indeterminata di delitti. Nel concorso di persone invece, l’accordo stipulato tra i correi ha natura occasionale e ha ad oggetto uno o più reati determinati, che una volta commessi esauriscono l’accordo medesimo.

Si è molto dibattuto, soprattutto a partire dagli inizi degli anni ’90, se potesse ritenersi configurabile il concorso c.d. esterno ex art. 110 c.p. nel delitto di associazione di tipo mafioso. Sul punto, com’è noto, dottrina e giurisprudenza hanno seguito strade diverse. Se la giurisprudenza accetta il ruolo dell’extraneus, la dottrina ritiene impossibile configurare la condotta del concorrente ex art. 110 c.p., non essendo possibile differenziare la posizione di soggetto esterno all’associazione e quella dell’affiliato vero e proprio, in quanto entrambi operano per l’associazione stessa, senza alcuna distinzione.

La Giurisprudenza ha invece avviato a partire dal 1994 (SS.UU., sentenza Dimitry) il riconoscimento della concorso esterno nel reato di cui all’art. 416 c.p., impegnandosi altresì a delineare i contributi penalmente rilevanti e il richiesto elemento soggettivo. Segnatamente, le S.U. del ’94 hanno affermato che il concorrente esterno è colui al quale l’associazione si rivolge per un tempo limitato; è un soggetto che non è e non vuole far parte dell’associazione, ma che offre la propria opera, a seguito di un’esplicita richiesta da parte degli associati dovuta ad un momento di difficoltà (“patologia”) dell’associazione medesima.

Nel 2002 le S.U., con la sentenza Carnevale, modificano il superiore assunto, sconfessando la necessità che l’opera del concorrente si svolga in un periodo limitato di tempo, potendo anche svolgersi con continuità; ciò che rileva è che il concorrente sia privo di quel sentimento personale di voler far parte dell’associazione quale affiliato. In sostanza, la Corte giunge a ritenere sussistente la condotta di concorso esterno non soltanto quando questa è volta a favorire il superamento di momentanee difficoltà della consorteria, ma anche quando è finalizzata al potenziamento della stessa. Occorre inoltre che il contributo fornito dall’associazione abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, quale risultato voluto e perseguito dal concorrente. Tali autorevoli affermazioni hanno trovato il successivo avallo di molteplici pronunce della Suprema Corte.

Quanto ai criteri attraverso cui procedere alla verifica dell’incidenza causale della condotta dell’extraneus, le S.U. del 2005, sentenza Mannino, richiamando la nota Sentenza Franzese, affermano che il riscontro in questione debba essere effettuato ex post ed in concreto, non essendo affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante –sia considerato idoneo ad aumentare il rischio o il pericolo di realizzazione di un fatto di reato, quando poi ex post si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo.

Quanto al dolo del concorrente esterno, per l’indirizzo assolutamente prevalente, esso deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione (dolo specifico).

Più di recente le superiori elaborazioni hanno trovato ulteriore avallo nella sentenza Dell’Utri del 2014, in cui la Suprema Corte (I sez. penale) ha ribadito come assuma le vesti di «concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nell’organigramma della associazione e privo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un’effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o, quantomeno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso». Occorre, ancora, che il contributo atipico del concorrente esterno abbia avuto una reale efficienza causale per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto. Il concorrente esterno – prosegue la Corte – deve essere, inoltre, consapevole dei metodi e dei fini dell’associazione (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e deve rendersi compiutamente conto della efficienza causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento della associazione.

Sempre in tema di concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso, il 14 aprile 2015 la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per la condanna inflitta a Bruno Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa, poiché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non “era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”. Contrada si era rivolto infatti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo affermando che – in base al principio di irretroattività sfavorevole sancito all’articolo 7 della CEDU – non avrebbe dovuto essere condannato, atteso che “il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all’epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato”. I giudici di Strasburgo, a differenza di quanto fatto da quelli italiani, gli hanno dato ragione, affermando che i tribunali nazionali, nel condannare Contrada, non hanno rispettato i principi di “non retroattività e di prevedibilità della legge penale”.

La sopra citata sentenza Contrada è stata posta alla base di una recente decisione pronunciata dal GIP del Tribunale di Catania il 21 dicembre 2015 (depositata il 12 febbraio 2016) in tema di concorso esterno in associazione mafiosa. Il Giudice, dopo aver ripercorso lo stato dell’arte del concorso esterno in associazione mafiosa ad oggi esistente, si interroga se, alla luce della ripercorsa evoluzione giurisprudenziale, «possa dirsi esistente nell’ordinamento giuridico italiano il cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa». Ed a tale quesito il Giudice fornisce una sorprendente risposta negativa.

Il procedimento logico-giuridico seguito dal Giudicante prende le mosse dalla sentenza Contrada, nella parte in cui si legge che tale fattispecie di reato è «frutto di una complessa evoluzione giurisprudenziale posteriore all’epoca dei fatti» e che trattasi di «figura criminosa di origine giurisprudenziale», giungendo ad affermare che non esiste il reato de quo per il principio di legalità, essendo il sistema giuridico italiano un sistema di civil law e non già di common law. Più in dettaglio il Giudice rileva come «la prima volta che tale reato viene citato è nell’ordinanza-sentenza del primo maxi processo contro cosa nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fattispecie ottenuta sommando gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, onde perseguire i cosiddetti “colletti bianchi”, soggetti che apportano dei concreti contributi alla attività mafiosa, tra cui Vito Ciancimino. Il riferimento storico non è di poco momento se si considera che l’articolo 416 bis c.p. viene introdotto nel 1982 e il grandissimo intuito di Falcone aveva portato a coprire una zona meritevole di tutela giurisdizionale».

Nel 2015, però, non può non osservarsi che «sono passati oltre trent’ anni senza che il legislatore abbia inteso disciplinare questa delicatissima materia nonostante siano stati proposti diversi progetti di legge». E allora «se i giudici sono soggetti soltanto alla legge occorre una norma di legge affinché il giudice adotti un provvedimento giurisdizionale motivato». «L’intuizione di Giovanni Falcone e la conseguente creazione di una fattispecie di reato che potesse coprire la zona grigia della collusione con la mafia, oggi non può che essere demandata al legislatore il quale deve farsi carico di stabilire i confini di tali figure di reato secondo precisi criteri di ermeneutica giuridica. Una volta individuata legislativamente tale fattispecie, sarà allora compito dell’interprete capire se il comportamento del singolo individuo vada ricompreso nella figura dell’associato di cui all’articolo 416 bis o meno: il problema non è di poco momento. Soprattutto perché lascia all’interprete il compito di definire qualcosa che, allo stato, non è definibile».

Ad avallo del proprio ragionamento incentrato sul principio di stretta legalità formale, il Giudice cita altresì la recente pronuncia della Corte di Cassazione nel processo “Mafia Capitale” (Cass. 21 aprile 2015, n. 34147), la quale ha evidenziato la “nebulosa applicazione” dei canoni individuati dalla giurisprudenza, giungendo ad affermare che “detti canoni, astrattamente ineccepibili, possono in concreto, risultare di nebulosa applicazione“.

Tale pronunciato ha suscitato accese discussioni sin da subito all’interno dello stesso Tribunale che l’ha pronunciata, al punto che il presidente dell’Ufficio GIP del Tribunale di Catania ne ha preso pubblicamente le distanze osservando che «la negazione del reato di concorso esterno è una decisione del tutto personale e isolata, poiché tutti gli altri giudici della sezione» lo ritengono «sicuramente ipotizzabile, come più volte stabilito dalla Corte di Cassazione».

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.