Il contenuto della sentenza e la motivazione

Ai sensi dell’art. 546 c.p.p., la sentenza deve avere il seguente contenuto:

  • l’intestazione in nome del popolo italiano, e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
  • le generalità dell’imputato o altre indicazioni che valgano ad identificarlo, nonchè la generalità delle altre parti private;
  • l’imputazione;
  • l’indicazione delle conclusioni delle parti;
  • la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibile le prove contrarie;
  • il dispositivo con l’indicazione degli articoli di legge applicati;
  • la data e la sottoscrizione del giudice.

La sentenza è nulla, se manca la sottoscrizione del giudice o la motivazione, o anche se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo (art. 546, comma 3).

La motivazione della sentenza

Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati (art. 111, comma 6, Cost.). La motivazione rappresenta, dunque, una componente strutturale necessaria dei provvedimenti del giudice, oltre che costituire una conquista della nostra civiltà giuridica

La valutazione degli elementi di prova posti a base della decisione rappresenta per il giudice un vero e proprio dovere. Egli, infatti, valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (art. 192, comma 1, c.p.p.).

Si parla di risultati acquisiti, in quanto non esistono nel nostro sistema processualpenalistico prove il cui valore sia predeterminato a priori; al contrario è sempre necessaria quell’attività raziocinante del giudice che accerti l’attendibilità della prova. Quanto, invece, all’espressione dei criteri adottati, essa indica i criteri appunto (es. massime di esperienza) utilizzati dal giudice nella valutazione delle prove.

Tale valutazione costituisce un’attività legale, in quanto ha ad oggetto solo le prove legittimamente acquisite, e razionale, in quanto implica l’obbligo di motivare, spiegare e giustificare la decisione secondo i criteri di ragionevolezza.

Si parla, infatti, di contenuto dialogico della motivazione, dovendo il giudice giustificare le proprie scelte in ordine alle prove che stanno a base del suo convincimento, dando altresì conto dell’eventuale esistenza di prove che con tale convincimento contrastino e delle ragioni per cui egli le ha, tuttavia, ritenute non convincenti. Il giudice non può, quindi, limitarsi a scegliere un’ipotesi ricostruttiva del fatto e ad enunciare le prove che la confermano, ma deve indicare le ragioni che lo hanno portato ad escludere le ipotesi contrari e a ritenere non attendibili le prove contrarie addotte.

Fonti:

  • Manuale di diritto processuale penale, Paolo Tonini, Giuffrè, 2016.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.