Contestazioni “a catena” delle ordinanze cautelari e calcolo dei termini di custodia

Noto ai più come la L. 8.8.1995, n. 332, abbia riformato il 3° co. dell’art. 297 c.p.p., nel tentativo di arginare il fenomeno delle contestazioni a catena delle ordinanze cautelari.

Tale novella ha, infatti, avuto il pregio di estendere la disciplina della retrodatazione dei termini di custodia cautelare anche in relazione a fatti diversi, benché connessi ex art. 12 lett. a) e c), sempre che tali fatti fossero già desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione.

Tale comma è stato successivamente dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte cost., con sent. 3.11.2005, n. 408 (in DPP, 2005, 12, 15118), nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza. Interessante in ordine a tale profilo è quella parte della sentenza emessa dalla Corte Costituzionale nella parte in cui è affermato che «nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del potere cautelare di scegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralità di titoli e di fatti di reato cui essi si riferiscono».

Da ultimo la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 297, 3° co., nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.

La preclusione all’applicazione del meccanismo di retrodatazione dei termini, connessa alla formazione del giudicato sui fatti oggetto della prima ordinanza cautelare in data anteriore a quella di adozione della seconda ordinanza, vìola l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento tra imputati che versano in situazioni eguali.

In particolare, i coimputati dei medesimi reati si vedrebbero negato o riconosciuto il diritto alla scarcerazione, a seconda che nei loro confronti si sia formato o meno il giudicato sui fatti oggetto della prima ordinanza cautelare, col risultato, tra l’altro, di penalizzare coloro che abbiano scelto riti alternativi e omesso di impugnare la sentenza di condanna.

La medesima preclusione vìola, altresì, l’art. 13, 5° co., Cost., poiché rende possibile l’elusione dei limiti massimi di durata della custodia cautelare che invece sono predeterminati dal legislatore e che non possono risultare dipendenti da circostanze accidentali estranee alle esigenze di garanzia della libertà personale dell’imputato nel corso del processo (C. Cost. 22.7.2011, n. 233, in DPP, 2011, 9, 1066).

Contestazioni a catena delle ordinanze cautelari: la ratio dell’art. 297 c.p.p., comma 3

La ratio sottesa all’applicazione dell’art. 297, 3° co. è chiara, ovvero quella di scongiurare il rischio di un’artificiosa protrazione degli effetti della misura cautelare, ogni qualvolta successivamente all’emissione di un primo provvedimento coercitivo ne vengono emessi dei nuovi nei confronti della stessa persona per fatti-reato anche diversi.

In caso di sussistente contestazione a catena il termine di custodia cautelare comincia a decorrere per tutte le misure concatenate dalla data di esecuzione della prima di esse e prosegue per tutta la durata della propria fase, cumulando quanto già patito in forza del primo titolo custodiale all’eventuale residuo per il caso in cui questo non fosse durato fino al massimo di pari fase.

In giurisprudenza è stato peraltro affermato che tale modus operandi sia applicabile, oltre che alle contestazioni dello stesso fatto, anche a quelle relative a fatti diversi in qualsivoglia modo collegati al primo, ancorché al di fuori delle ipotesi di specifica connessione contemplate da detta norma, sempre che con riguardo a tali fatti diversi «si accerti che sussistessero a disposizione dell’Autorità giudiziaria, al momento della emissione del primo provvedimento, idonei indizi di colpevolezza» (C., Sez. V, 16.4.2003, Reale, in Mass. Uff., 224987).

Siffatto indirizzo interpretativo è stato accolto dalle Sezioni Unite secondo cui nel caso di emissione nei confronti di un imputato di più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione qualificata prevista dall’art. 297, 3° co., «i termini delle misure disposte con le ordinanze successive decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, se al momento dell’emissione di questa erano già desumibili dagli atti gli elementi che hanno giustificato le ordinanze successive» (C., S.U., 22.3.2005, P.M. in c. Rahulia ed altri, in CP, 2005, 2885).

Da qui dunque, nell’ ipotesi di fatti-reato non connessi ex art. 12, il non eludibile impegno del giudice nell’accertare volta per volta (e caso per caso) se fin dal momento della prima ordinanza cautelare (rectius: della prima richiesta cautelare) esistevano o meno, agli atti del procedimento, elementi aventi significatività e consistenza tale da giustificare una richiesta e l’emissione della ordinanza cautelare anche per gli altri fatti.

Contestazioni a catena delle ordinanze cautelari: la “desumibilità” dagli atti di nuovi elementi

Quanto al concetto di desumibilità di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p., esso va interpretato nel senso che si deve riferire a specifici eventi e condotte penalmente rilevanti. Ai fini dell’applicabilità della retrodatazione dei termini custodiali occorre che il pubblico ministero procedente disponga concretamente di un quadro indiziario di tale gravità e completezza che gli permetta di apprezzare in tutta la loro valenza probatoria la sussistenza dei presupposti legittimanti l’adozione di ulteriori ordinanze cautelari nei confronti di soggetti già raggiunti da precedenti misure cautelari.

In giurisprudenza è stato inoltre affermato che «per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio» deve intendersi «quelli per cui non sono stati ancora acquisiti… gravi indizi di colpevolezza indipendentemente dal fatto che il pubblico ministero ne abbia notizia storica» (ex multis v. C., S.U., 25.6.1997, Atene, in GP, 1998, III, 365).

Con riferimento al legame esistente tra il reato associativo e i singoli delitti “fine”, la Suprema Corte ha, in più di una occasione, escluso che possa di per sé ravvisarsi un rapporto di connessione rilevante ex art. 297, 3° co. ; il “vincolo” potrà ritenersi sussistente soltanto qualora risulti che fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dalla adesione ad esso, un determinato soggetto, nell’ambito del generico programma criminoso, abbia già individuato uno o più specifici fatti di reato, da lui poi effettivamente commessi ( cfr., in tema di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e singoli reati fine, Cass. sez. VI, 12/05/2003).

La permanenza del reato associativo cessa con la privazione della libertà, con la conseguenza che qualora risulti provata l’ulteriore adesione al sodalizio dopo l’instaurazione della detenzione o successivamente alla scarcerazione) si ravvisa un nuovo ed autonomo reato per il quale può essere emesso un nuovo provvedimento cautelare… senza che sia violato l’art. 297, 3° co.

In tema di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti si è ritenuto che l’esclusione della sussistenza del medesimo fatto, con conseguente inapplicabilità dell’art. 297, 3° co., non può fondarsi sui mutamenti intervenuti nella composizione dell’associazione criminosa qualora non dimostrino la nascita di una compagine diversa, né sul fatto che siano state poste in essere condotte criminose apparentemente estranee all’oggetto principale dell’associazione, qualora l’attività principale di traffico di stupefacenti sia rimasta sostanzialmente immutata, né, infine, sulla data in cui sono state emesse le diverse ordinanze cautelari, dovendo escludersi che in questi casi il dato temporale possa dimostrare l’esistenza di associazioni diverse.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.