I criteri di riparto della competenza del giudice penale

Può definirsi “competenza” l’insieme delle regole giuridiche finalizzate ad attuare una distribuzione delle regiudicande penali, in modo che risulti predeterminato il giudice legittimato a conoscere di ogni procedimento, come impone l’art. 25 comma 1 Cost.

Il nostro codice prevede tre criteri di determinazione del giudice competente (artt. 4 e ss c.p.p.). Si distingue, infatti, rispettivamente tra competenza per materia (o ratione materiae); competenza per territorio (o ratione loci) e competenza per connessione. Ad essi va aggiunta, altresì, la competenza per funzione, che , correlata ai tre predetti criteri di cui occorre il previo accertamento, individua il giudice competente in base alla funzione da questi svolta nell’ambito di un medesimo procedimento (giudice di primo grado, giudice dell’impugnazione, etc).

A far data dal 2 giugno 1999, anno in cui è stata soppresso l’ufficio del Pretore ed il Tribunale è stato sdoppiato in due diversi moduli organizzativi (Tribunale monocratico e collegiale), è stato inoltre introdotto un ulteriore criterio di assegnazione delle regiudicande. Trattasi della c.d. attribuzione, la quale non coincide con la competenza, differenziandosene perché opera quale criterio interno di ripartizione, al fine di distinguere l’ambito di cognizione spettante al Tribunale in composizione monocratica, da quello spettante al medesimo Tribunale in composizione collegiale.

Competenza per materia

Ai fini dell’individuazione della competenza per materia, il Legislatore mostra di far uso tanto di un criterio qualitativo (che tiene conto del tipo di reato), quanto di un criterio quantitativo (che ha invece riguardo al livello della pena edittale).

Proprio con riferimento al secondo dei due criteri testé accennati, l’art. 4 dispone che bisogna tenere conto del massimo della pena stabilita per ciascun reato, consumato o tentato. Viene esclusa, invece, la rilevanza della continuazione , della recidiva e delle circostanze del reato, salvo che si tratti di aggravanti che prevedono una specie di pena diversa o di quelle ad effetto speciale.

L’art. 5 disegna la competenza della Corte d’Assise. Segnatamente, essa è competente:

a) per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni, esclusi i delitti – comunque aggravati – di tentato omicidio (artt. 56, 575 c.p.), di rapina, di estorsione, di associazioni di tipo mafioso anche straniere, nonché per i delitti – comunque aggravati – previsti dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (T.U. in materia di stupefacent)i;

b) per i delitti consumati previsti dagli articoli 579 (omicidio del consenziente), 580 (istigazione al suicidio), 584 (omicidio preterintenzionale);

c) per ogni delitto doloso se dal fatto è derivata la morte di una o più persone, escluse le ipotesi previste dagli articoli 586 (morte come conseguenza non voluta di altro delitto), 588 (rissa) e 593 (omissione di soccorso) del codice penale;

d) per i delitti previsti dalle leggi di attuazione della XII disposizione finale della Costituzione (riorganizzazione del partito fascista), dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962 (delitti di genocidio) e nel titolo I del libro II del codice penale (artt. 241-313 c.p., delitti contro la personalità dello Stato), sempre che per tali delitti sia stabilita la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dieci anni.

d-bis) per i delitti consumati o tentati di cui agli articoli 416, comma 6, 600, 601, 602 del codice penale, nonché per i delitti con finalità di terrorismo sempre che per tali delitti sia stabilita la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dieci anni.

Ai sensi del successivo art. 6, la competenza del Tribunale si ricava per esclusione, posto che essa ha riguardo ai reati non appartenenti alla competenza della Corte di Assise e del giudice di pace.

Competenza per territorio

Per quanto concerne la competenza per territorio, criterio fondamentale è quello del luogo in cui il reato è stato consumato (art. 8, co. 1 c.p.p.). Ad essa seguono altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delicti in ragione della particolare configurazione della fattispecie criminosa (v. commi 2-3-4 art. 8), nonché talune regole suppletive che consentono l’individuazione del giudice territorialmente competente quando non è possibile applicare le regole generali.

Ai sensi dell’art. 8, commi 2, 3 e 4,  nel caso in cui il fatto abbia cagionato la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione ed omissione, e non di quello in cui si è verificata la morte; in tale luogo è infatti più agevole la ricerca delle prove. Nelle ipotesi, invece, di delitto tentato o di reato permanente, è compente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto nella prima ipotesi; del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione per la seconda.

Guardando invece alle regole suppletive, esse sono previste e ordinate gerarchicamente dall’art. 9 c.p.p., il quale dispone che occorre prima di tutto guardare al criterio del luogo in cui è avvenuta parte dell’azione o dell’omissione; secondariamente, in successione, al criterio della residenza, della dimora, del domicilio dell’imputato. Infine, ove nessuno dei suddetti criteri risulti utilizzabile, sarà competente il giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del PM che per primo ha provveduto a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p.

Tale normativa va applicata anche qualora il reato sia stato commesso in parte all’estero; diversamente, ove esso risulti commesso interamente oltre confine, la competenza viene a essere radicata nel luogo in cui ha la residenza, la dimora, il domicilio l’imputato o del luogo dell’arresto o della consegna del medesimo, con prevalenza – nel caso di più imputati – del giudice competente per il maggior numero di essi ( art. 10 c.p.p.).

Non mancano specifiche ipotesi in cui, al fine di garantire una migliore funzionalità dell’amministrazione giudiziaria e di evitare offuscamenti all’imparzialità del giudicante, il codice ha dettato regole ad hoc, in deroga a quelle generali.

Può in particolare farsi riferimento a due ipotesi. La prima è quella prevista dall’art. 328 co. 1 bis e 1 quater c.p.p., che riguardano i procedimenti relativi ai delitti elencati nell’art. 51, commi 3 bis, 3 quater e 3 quinquies: in tali ipotesi è previsto che le funzioni di G.i.p., nonché di G.u.p., sono esercitate da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello nel cui ambito ha sede il giudice competente (allo stesso modo va, altresì, individuato l’ufficio del PM competente per le indagini).

La seconda deroga è invece disciplinata all’art. 11 c.p.p., la quale opera in presenza di due presupposti:

  • l’esistenza di un procedimento penale in cui un magistrato assuma la qualità di imputato o di persona offesa o danneggiata dal reato;
  • la competenza di un ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di Corte d’appello in cui il medesimo magistrato esercita le proprie funzione (o le ha esercitate al momento del fatto).

In tali casi, ai sensi dell’art. 11 (per come novellato dall’art. 1 l. 2 dicembre 1998, n. 420), è competente il giudice – ugualmente competente per materia – che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d’appello determinato dalla legge, sulla scorta di una tabella – allegata alle disposizioni attuative del codice – incentrata sul criterio della circolarità (es. per i procedimenti riguardanti i magistrati della Corte di appello di Roma sono competenti i magistrati di Perugia; per quelli di Perugia, sono competenti i magistrati di Firenze, etc.).

Competenza per connessione

La connessione costituisce un criterio autonomo di attribuzione della competenza, comportando il confluire davanti ad unico giudice di procedimenti che, in base ai criteri di competenza per materia o per territorio sopra analizzati, sarebbero attribuiti a giudici diversi.

Ad oggi, a seguito di vari interventi riformatori (v. ad. Es. art. 1 comma 1, L. 1 marzo 2001, n. 63), l’art. 12 c.p.p. dispone che si ha connessione di procedimenti:

  1. se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o in cooperazione tra loro, ovvero se più persone, con condotte indipendenti, hanno determinato l’evento;
  2. se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale), ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (reato continuato);
  3. Se dei reati per cui si procede taluni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri.

Prioritario, ai fini dell’individuazione del giudice competente per connessione, è il criterio del giudice superiore, sicché in caso in connessione tra procedimenti di competenza del Tribunale e procedimenti di competenza della Corte d’Assise, è per tutti competente la Corte d’Assise (art. 15 c.p.p.).

Nel caso invece di procedimenti connessi che siano di competenza di più giudici ugualmente competenti per materia, prevale la competenza del giudice a cui è attribuito il reato più grave; in caso di pari gravità, è competente il giudice per il reato commesso per primo.

Nel caso di connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e di giudici speciali, nell’ipotesi di competenza concorrente tra la Corte costituzionale e giudice ordinario, prevale la competenza della prima (art. 13); mentre nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario vale la regola opposta, a meno che il reato comune non sia più grave di quello militare (comma 2).

La connessione non opera invece nel caso di procedimenti relativi ad imputati minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni, attesa l’inderogabile e specializzata competenza del Tribunale per i minori.

Competenza funzionale

Come già accennato nell’incipit del presente articolo, le regiudicande penali vengono distribuite tra diversi giudici anche in ragione della funzione che questi svolgono nell’ambito del medesimo procedimento. Anche se priva di riscontro sul piano normativo, si tratta di una consolidata categoria di distribuzione della competenza.

È così possibile distinguere la competenza – per gradi – dei giudici di primo grado (giudice di pace, Tribunale e Corte d’assise) e giudici di secondo grado (Corte d’appello, Corte d’assise d’appello e Tribunale in composizione monocratica per l’impugnazione delle sentenze del giudice di pace), nonché la competenza del giudice della legittimità (Corte di Cassazione).

Per quanto riguarda la competenza per fasi, viene in rilievo la fase anteriore al giudizio, per cui è competente il G.i.p. e successivamente il G.u.p.; la fase del giudizio, per cui sono competenti i giudici sopra menzionati a seconda che si verta in primo o secondo grado o in Cassazione; e la fase dell’esecuzione, nell’ambito della quale occorre distinguere le competenze attribuite al giudice dell’esecuzione, da quelle attribuite alla magistratura di sorveglianza (a sua volta articolata nelle funzioni del Magistrato di Sorveglianza e in quelle del Tribunale di sorveglianza).

Nel codice non mancano altresì specifiche attribuzione di un determinato giudice; si pensi ad esempio alle funzioni espletate dal Tribunale in composizione collegiale in materia di riesame o di appello di misure cautelari.

La cognizione attribuita al Tribunale monocratico e collegiale

Una volta che sia stata determinata la competenza del Tribunale in ordine ad un certo reato, occorre ulteriormente stabilire se sia richiesta la composizione collegiale ovvero quella monocratica. In tal caso opera il sottocriterio dell’attribuzione, quale criterio interno di riparto, delineato agli artt. 33 bis e 33 ter c.p.p.

A tal fine, il Legislatore adopera tanto un criterio quantitativo, il quale attualmente consente di devolvere al Tribunale collegiale i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a dieci anni (anche nelle ipotesi di tentativo), tanto un criterio qualitativo, che implica deroghe al primo dei due criteri di non trascurabile portata. Nonché, si noti ancora, vi sono taluni delitti che, benché puniti con la reclusione superiore nel massimo ad anni dieci, vengono attribuiti al Tribunale monocratico (così per i delitti in materia di stupefacenti, salvo che ricorrano le aggravanti di cui all’art. 80 D.P.R. 309/90).

E così, ai sensi del comma 1 dell’art. 33 bis, sono attribuiti al Tribunale in composizione collegiale i seguenti reati, consumati o tentati:

a) delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 3), 4) e 5), sempre che per essi non sia stabilita la competenza della Corte di Assise;

b) delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale, esclusi quelli indicati dagli articoli 329, 331, primo comma, 332, 334e 335 (delitti dei pubblici ufficiali contro la PA);

c) delitti previsti dagli articoli 416, 416 bis, 416 ter, 420,terzo comma, 429, secondo comma, 431, secondo comma, 432, terzo comma, 433, terzo comma, 440, 449, secondo comma, 452, primo comma, numero 2, 513bis, 564, da 600bis a 600sexies puniti con reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, 609 bis, 609 quater e 644 del codice penale;

d) reati previsti dal Titolo XI del libro V del Codice civile, nonché dalle disposizioni che ne estendono l’applicazione a soggetti diversi da quelli in essi indicati;

e) delitti previsti dall’articolo 1136 del codice della navigazione;

f) delitti previsti dagli articoli 6 e 11 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (delitti commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio della loro funzione);

g) delitti previsti dagli articoli 216, 223, 228 e 234 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, in materia fallimentare, nonché dalle disposizioni che ne estendono l’applicazione a soggetti diversi da quelli in essi indicati;

h) ;i) delitti previsti dalla legge 20 giugno 1952, n. 645, attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione ;

i-bis) delitti previsti dall’articolo 291 quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43  .

l) delitto previsto dall’articolo 18 della legge 22 maggio 1978, n. 194, in materia di interruzione volontaria della gravidanza;

m) delitto previsto dall’articolo 2 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, in materia di associazioni segrete;

n) delitto previsto dall’articolo 29, secondo comma, della legge 13 settembre 1982, n. 646, in materia di misure di prevenzione;

o) delitto previsto dall’articolo 12quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, in materia di trasferimento fraudolento di valori;

p) delitti previsti dall’articolo 6, commi 3 e 4, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa;

q) delitti previsti dall’articolo 10 della legge 18 novembre 1995, n. 496, in materia di produzione e uso di armi chimiche;

Quanto alle attribuzioni del Tribunale in composizione monocratica, vale la regola della complementarietà: esso giudica sui reati non attribuiti al Tribunale collegiale.

Per quanto concerne l’eventuale connessione di procedimenti attributi ai due organi in diversa composizione, l’art. 33 quater dispone (in maniera omogenea rispetto all’art. 15 c.p.p. sopra esaminato) che tutti i procedimenti siano attributi al Tribunale in composizione collegiale (criterio del giudice superiore).

Riunione e separazione dei processi

Diversamente dalla connessione, che – quale criterio di riparto della competenza – opera sin dall’inizio del procedimento, la riunione o la separazione dei processi sono istituti che operano solo nell’ambito del processo (dunque, dopo l’esercizio dell’azione penale).

La riunione dei processi comporta la trattazione congiunta di processi in precedenza pendenti davanti a diversi giudici, sezioni, o anche composizioni dello stesso ufficio giudiziario, previamente individuati in base ai normali criteri di competenza.

Ai sensi dell’art. 17 co. 1 c.p.p., per la riunione occorre la sussistenza dei seguenti presupposti:

  1. la pendenza davanti al medesimo ufficio giudiziario dei processi da riunire;
  2. che questi ultimi si trovino pendenti nello stesso stato e grado del processo;
  3. una prognosi negativa circa un possibile ritardo nella definizione delle singole vicende processuali;
  4. la sussistenza di uno dei casi tassativamente indicati dalla legge, ovvero quando i processi risultino connessi ai sensi dell’art. 12 o nei casi previsti dall’art. 371, comma 2 , lett. B) relativo al collegamento delle indagini.

Va ritenuto che allorché ricorrano i seguenti presupposti, qualora venga esclusa la sussistenza di un pregiudizio in termini di ritardo della definizione del processo, la riunione costituisca un atto dovuto, e non discrezionalmente rimesso alla voluntas del giudicante.

L’art. 18 si occupa invece della separazione dei processi, il quale elenca una serie di ipotesi in presenza delle quali il giudice deve scindere un processo cumulativo (che sia tale sia ab origine, sia successivamente ad un provvedimento di riunione ex art. 17 c.p.p.). Si tratta – grossomodo – di ipotesi in cui per taluni imputati ( o talune imputazioni) si versa in una situazione di stallo, mentre per altri è possibile l’immediata trattazione.

Si deve procedere a separazione allorché sia stata disposta, ad esempio, la sospensione del procedimento volta ad accertare le condizioni di infermità mentale di un imputato; oppure quando, per determinate irregolarità procedurali, occorre rinnovare la citazione in giudizio o l’avviso di fissazione udienza solo per taluni imputati, e così via.

Un’ulteriore ipotesi di separazione, aggiunta di recente, ha riguardo all’ipotesi in cui il processo abbia come protagonisti uno o più imputati chiamati a rispondere di reati di elevata gravità (quelli di cui all’art. 407 c.p.p.) ed essi siano prossimi a essere rimessi in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare.

Evidente dagli esempi riportati che alla base dell’istituto della separazione vi siano esigenze di celerità nella definizione del giudizio, che soccombono solo innanzi a imprescindibili esigenze di accertamento: la separazione è infatti esclusa allorché il giudice ritenga che la riunione sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti.

Al di fuori delle ipotesi codicistiche, la separazione può infine essere disposta sulla base di un accordo tra le parti, sempre che il giudice lo reputi utile sotto il profilo della speditezza.

I provvedimenti in tema di riunione e separazione dei processi sono adottati con ordinanza, che può essere emessa anche d’ufficio, sentite le parti (art. 19 c.p.p.).

Eccezione di incompetenza del giudice

L’incompetenza per materia è considerata più grave degli altri tipi di incompetenza, incidendo la stessa sulla capacità tecnico-professionale del giudice. Essa può infatti essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo (non prima che sia stata esercitata l’azione penale, dunque).

L’incompetenza per territorio e per connessione, invece, deve essere rilevata , a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare, o, se questa manchi, ovvero l’eccezione venga respinta in tale sede, entro il termine previsto dall’art. 491 , comma 1 c.p.p., per la trattazione delle questioni preliminari.

Vi sono , tuttavia, due situazioni che derogano all’ordinario regime dell’incompetenza per materia: la prima ricorre quando il giudice conosce di un reato che appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore (c.d. incompetenza per eccesso): in tal caso, l’incompetenza deve essere rilevata d’ufficio o su eccezione di parte entro il termine di cui all’art. 491, comma 1 (art. 23, comma 2).

La seconda deroga invece attiene all’ipotesi di incompetenza per materia derivante da connessione, la quale va eccepita o rilevata, sempre a pena di decadenza, entro gli stessi termini stabiliti per l’incompetenza per territorio (art. 21, comma 3). Tale disposizione, per coerenza di sistema, va riferita alla sola ipotesi di incompetenza per eccesso, rimanendo invece l’altra ipotesi di incompetenza per materia (quella per difetto) regolata dall’art. 21, comma 1 e quindi rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

Per quanto attiene alla forme a ed agli effetti del provvedimento con cui si dichiara l’incompetenza occorre guardare agli artt. 22 e ss c.p.p.

Segnatamente, nel corso delle indagini preliminari, il giudice pronuncia ordinanza (con effetti circoscritti al provvedimento richiesto) e dispone la restituzione degli atti al PM.

Dopo la chiusura delle indagini e in sede di dibattimento di primo grado, il giudice dichiara la propria incompetenza con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al  PM presso il giudice competente.

In grado di appello (o nel giudizio davanti alla Corte di Cassazione), il giudice – nel caso di rilevata incompetenza per difetto – pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado. Nel caso di incompetenza per eccesso invece, occorrerà che l’eccezione di incompetenza sia stata ritualmente formulata in primo grado entro i prestabiliti termini e che la stesse eccezione sia stata riproposta nei motivi di gravame. La stessa regola si applica anche ai casi di incompetenza per territorio e per connessione.

In base al principio di conservazione degli atti assunti dal giudice incompetente, il mancato rispetto delle norme sulla competenza non determina l’inefficacia delle prove acquisite, con la sola parziale eccezione relativa alle dichiarazioni rese al giudice incompetente che, se ripetibili, possono essere utilizzate soltanto in sede di udienza preliminare o per le contestazione di cui agli artt. 500 e 503 c.p.p. (artt. 26 e 27).

Per quanto invece riguardo le misure cautelari disposte da un giudice dichiaratosi contestualmente, o successivamente, incompetente, esse cessano di avere efficacia qualora entro venti giorni dall’ordinanza di trasmissione degli atti al giudice competente, questi non provveda a confermarle.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.