Dei delitti contro l’Amministrazione della Giustizia (Titolo III, libro II c.p.)

I delitti contro l’Amministrazione della Giustizia sono contenuti nel titolo III del libro II del nostro codice sostanziale. Esso è , a sua volta, suddiviso in tre capi:

  • Capo I : delitti contro l’attività giudiziaria;
  • Capo II: delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie;
  • Capo III: tutela arbitraria delle private ragioni.

Il bene giuridico tutelato dai delitti in esame può individuarsi, in via generale e salve maggiori specificazioni con particolare riferimento a ciascuno dei suddetti Capi, nel corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

Dalla tripartizione sopra riporta, è facile desumere che il Legislatore abbia inteso il concetto di “amministrazione della giustizia” in senso molto ampio, sì da ricomprendervi tanto i reati che intralciano il normale e corretto svolgimento dell’attività giudiziaria nelle sue varie fasi procedimentali, quanto i reati che non attengono direttamente all’amministrazione giudiziaria, ma riguardano attività abusive dei privati che tendono a sostituirsi alla stessa.

La maggior parte dei delitti oggetto del discorso, dal punto di vista strutturale, sono prevalentemente reati di pericolo concreto, essendo sufficiente per la punibilità dell’agente che il fatto oggetto d’incriminazione sia idoneo a porre in pericolo il corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

Passiamo adesso ad un sintetico esame delle fattispecie più rilevanti contenuti nel Titolo di cui si è discorso.

Omessa denuncia di reato (artt. 361 e 362 c.p.)

Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’autorità giudiziaria, o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516.

La pena è della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto.

Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa.

 L’incaricato di un pubblico servizio che omette o ritarda di denunciare all’autorità indicata nell’articolo precedente un reato del quale abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa del servizio, è punito con la multa fino a euro 103.

Tale disposizione non si applica se si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa, né si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l’esecuzione del programma definito da un servizio pubblico.

 Il Capo I si apre con gli artt. 361 e 362, che disciplinano il delitto di Omessa denuncia di reato , commesso rispettivamente da parte del pubblico ufficiale e dall’incaricato di pubblico servizio. Invero, privo di logica lo sdoppiamento della fattispecie in due distinte norme incriminatrici, ragion per cui si procede alla loro unitaria trattazione.

L’interesse tutelato è quello all’acquisizione della notizia criminis da parte dell’Autorità giudiziaria, al fine dell’esercizio dell’azione penale.

Trattasi di reati propri, potendo essere commessi soltanto da quelle determinate categorie di soggetti che per le funzioni svolte si vengono a trovare in una particolare relazione col bene giuridico tutelato.

Presupposto dell’obbligo di denuncia è l’esistenza di un reato procedibile d’ufficio di cui il soggetto qualificato abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni. Si noti come per gli agenti ed ufficiali di Polizia giudiziaria – ad eccezione degli appartenenti alla Polizia di Stato, struttura non militare -, dovendo gli stessi considerarsi in servizio permanente, è sufficiente che essi abbiano avuto comunque notizia del reato (cfr. Cass. pen. sez. VI, 2 luglio 2012, n. 29836).

Occorre comunque un’informativa che, benché sommaria ed imprecisa, delinei il reato in modo sufficiente nei suoi tratti essenziali. Non fa venire meno l’obbligo di denucnia la circostanza che il reato risulti estinto o l’autore non punibile, essendo queste valutazioni rimesse all’Autorità giudiziaria.

La condotta incriminata consiste, alternativamente, nell’omissione o nel ritardo della denuncia di un reato all’Autorità giudiziaria, rectius alla Procura della Repubblica, o ad altra Autorità, ovvero alla Polizia giudiziaria o altra autorità con cui il denunciante abbia un obbligo di denuncia in via primaria in virtù dell’esistenza di un rapporto gerarchico/istituzionale.

Secondo l’orientamento prevalente, l’obbligo di denuncia sottointende quello di denunciare la verità, sicchè la presentazione di una denuncia falsa, incompleta o reticente può comunque integrare il delitto de quo.

Trattandosi, inoltre, di un reato istantaneo di tipo omissivo, è da più ritenuto in configurabile il tentativo.

Si richiede, a livello soggettivo, il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di omettere o ritardare una denuncia di un reato punibile d’ufficio.

Quanto ai rapporti con altri reati, il reato di omessa denuncia va innanzitutto distinto dal concorso nel reato, che ricorre allorchè il P.U. non abbia impedito il fatto pur avendone l’obbligo ex art. 40 c.p., richiedendosi in questo secondo caso che il P.U. non abbia omesso la semplice denuncia, ma abbia omesso il doveroso comportamento attivo di impedire il reato concorrendo così al suo compimento.

Per quanto invece attiene ai rapporti con il reato di cui all’art. 328 (Omissione d’atti d’ufficio), è da ritenere che ci si trovi innanzi ad un concorso apparente di norme, sicchè, alla luce del principio di specialità, troverà applicazione il solo art. 361 c.p. (o art. 362, a seconda della qualifica del soggetto attivo).

Parte della dottrina sostiene inoltre che, ove l’omissione o il ritardo della denuncia abbiano il fine di aiutare taluno ad eludere le ricerche dell’Autorità, si verifica un concorso formale di reati con il delitto di favoreggiamento personale (di diverso avviso chi sostiene che il delitto testé citato non possa realizzarsi in forma omissiva, v. infra).

Simulazione di reato (art. 367 c.p.)

Chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’autorità giudiziaria o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, afferma falsamente essere avvenuto un reato, ovvero simula le tracce di un reato, in modo che si possa iniziare un procedimento penale per accertarlo, è punito con la reclusione da uno a tre anni.

Bene giuridico protetto: impedire che gli organi destinati all’accertamento e alla repressione dei reati vengano sviati dalle loro funzioni istituzionali, nonché – secondo i sostenitori della tesi che si tratterebbe di un reato plurioffensivo – impedire che siano coinvolte in un procedimento penale persone innocenti.

Trattasi di un reato comune, non essendo richiesta alcuna particolare qualifica dell’agente.

Dal punto di vista oggettivo, il reato in parola può essere realizzato secondo due modalità alternative. Si parla in proposito di:

  • simulazione c.d. formale o diretta, consistente nella falsa affermazione che è avvenuto un reato, contenuta in una denuncia, querela o istanza indirizzata all’A.G.;
  • simulazione c.d. reale o indiretta, che attiene alla condotta di simulazione di tracce ed indizi di un reato (si pensi alla persona che si autoprocuri ecchimosi, ferite e lacerazioni delle vesti per simulare di avere subito un abuso sessuale).

La norma in esame configura un reato di pericolo concreto, tale per cui occorre l’idoneità della condotta a determinare l’avvio inutile di un procedimento penale (senza che tale avvio sia in concreto avvenuto).

Attesa la frazionabilità della condotta, il tentativo viene da taluni ammesso: si pensi al caso della falsa denuncia che non perviene all’A.G. per cause indipendenti dalla volontà dell’agente.

Dal punto di vista soggettivo, è richiesto il dolo generico, che viene escluso allorchè l’agente, per errore di valutazione delle circostanze di fatto, sia erroneamente convinto dell’esistenza del reato.

Calunnia (art. 368 c.p.)

Chiunque, con denunzia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’autorità giudiziaria o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni.

La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.

La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo;  .

Il reato de quo si distingue dalla simulazione di reato di cui all’articolo precedente, in quanto in quest’ultimo manca l’accusa a carico di un soggetto determinato (o determinabile).

Si ritiene trattarsi di un reato plurioffensivo, posto a tutela oltre che del corretto e fruttuoso svolgimento dell’attività di accertamento e repressione dei reati, anche a tutela della libertà della persona falsamente incolpata.

Soggetto attivo può essere, anche in questo caso, chiunque (reato comune).

Specularmente a quanto già visto in ordine alla simulazione di reato, anche la fattispecie di calunnia prevede due modalità alternative di realizzazione del reato:

  • la prima si concreta nella denuncia, querela, istanza o richiesta a carico di un soggetto determinato (calunnia formale o diretta);
  • la seconda nella simulazione a carico di un soggetto determinato delle tracce di un reato (calunnia materiale o indiretta).

Si discute circa la punibilità della condotta di calunnia commessa ai danni di una persona non punibile o non imputabile. Secondo l’opinione ad oggi prevalente, nel caso di non punibilità il reato andrebbe escluso; nel caso invece di non imputabilità, qualora dal reato oggetto della calunnia possa derivare l’applicazione di una misura di sicurezza, si ritiene possibile l’integrazione del delitto in discorso.

Anche la calunnia è un reato di pericolo concreto (v. supra).

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico. La calunnia colposa, quindi, non è punibile. Oltre alla volontà di incolpazione, rientra nell’oggetto del richiesto dolo anche la consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato. Rilevante l’errore di fatto sulla sussistenza del dolo.

Questione interpretativa degna di nota ha riguardato i rapporti tra la calunnia e il diritto di difesa. Secondo Cass. pen. 25 novembre 2005, n. 42719, la condotta dell’imputato che non si limiti a discolpare sé stesso dalle accuse a suo carico, ma rivolga altresì della accuse verso un soggetto che sa essere innocente, commette il delitto di calunnia.

False informazioni al pubblico ministero o al procuratore della Corte penale internazionale (art. 371 bis c.p.)

(1)Chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal pubblico ministero o dal procuratore della Corte penale internazionale di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione fino a quattro anni.

Ferma l’immediata procedibilità nel caso di rifiuto di informazioni, il procedimento penale, negli altri casi, resta sospeso fino a quando nel procedimento nel corso del quale sono state assunte le informazioni sia stata pronunciata sentenza di primo grado ovvero il procedimento sia stato anteriormente definito con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere.

Le disposizioni di cui ai commi primo e secondo si applicano, nell’ipotesi prevista dall’articolo 391-bis, comma 10, del codice di procedura penale, anche quando le informazioni ai fini delle indagini sono richieste dal difensore.(2)

  • (1) norma introdotta con L. n. 356/1992.
  • (2) comma inserito dalla L. 397/2000, recante la disciplina delle indagini difensive.

Bene giuridico: tutela della genuinità delle indagini preliminari

Trattasi di reato proprio, potendo essere compiuto dal soggetto che viene richiesto dal P.M. di rendere delle informazioni ai fini delle indagini.

Particolare attenzione merita il fatto che la norma de qua non trova applicazione nei confronti di chi rende informazioni alla Polizia giudiziaria, anche nel caso in cui questa agisca su delega del P.M., in virtù del divieto di analogia in malam partem. Può, semmai, in tali ipotesi configurarsi il delitto di favoreggiamento personale, ove ne ricorrano i presupposti.

Dal punto di vista oggettivo, la condotta incriminata consiste nel rendere dichiarazioni false o nel tacere ciò che si sa sui fatti intorno ai quali si viene interrogati. Dal punto di vista soggettivo, è invece richiesto il dolo generico.

Il colpevole non è punibile se, nel procedimento penale in cui ha reso le sue dichiarazioni, ritratta il falso o manifesta il vero non oltre la chiusura del dibattimento.

False dichiarazioni al difensore (art. 371 ter c.p.)

Nelle ipotesi previste dall’articolo 391-bis, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, chiunque, non essendosi avvalso della facoltà di cui alla lettera d) del comma 3 del medesimo articolo, rende dichiarazioni false è punito con la reclusione fino a quattro anni.

Il procedimento penale resta sospeso fino a quando nel procedimento nel corso del quale sono state assunte le dichiarazioni sia stata pronunciata sentenza di primo grado ovvero il procedimento sia stato anteriormente definito con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere.

La norma sopra riporta è stata introdotta dalla L n. 397 del 2000, punisce chiunque, richiesto dal difensore o dai soggetti legittimati di riferire circostanze utili ai fini delle indagini, non avvalendosi della facoltà di non rispondere, renda dichiarazioni false.

La condotta tipizzata si concreta nel rendere dichiarazioni false, il che può realizzarsi sia affermando come veri accadimenti, situazioni o circostanze non realmente verificatesi, sia negando la verità di fatti realmente accaduti. Il reato è punibile a titolo di dolo generico,consistente nella coscienza e volontà di rendere false dichiarazioni, a prescindere dalla finalità perseguita.

Falsa testimonianza (art. 372 c.p.)

Chiunque, deponendo come testimone innanzi all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni .

Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie in esame va individuato nell’interessa alla veridicità e completezza dello specifico oggetto di prova costituito dalla testimonianza.

Si tratta, infatti, di un reato proprio, potendo essere commesso solo da chi depone come testimone innanzi all’A.G., compresi – ex art. 199 c.p.p. – il denunziante, querelante e la persona offesa.

La condotta incriminata può essere realizzata secondo tre forme equivalenti:

  • affermazione del falso;
  • negazione del vero;
  • reticenza (che rappresenta una modalità di realizzazione della condotta di tipo omissivo).

A tal proposito va qui richiamata la teoria del c.d. vero soggettivo, secondo cui la falsità della testimonianza dipende non dalla discordanza tra quanto dichiarato e quanto realmente accaduto, ma tra quanto dichiarato e quanto percepito dal testimone; quindi è falsa quella testimonianza che contrasta con ciò che il testimone sa di aver visto e udito.

Si tratta di un reato di pericolo concreto, occorrendo che la falsa deposizione sia idonea a trarre in inganno il giudice, sebbene nel caso concreto il giudice abbia tratto la conoscenza della verità da altre fonti di prova.

Nel caso in cui la falsa testimonianza venga reiterata nel corso del medesimo procedimento e sia vertente sul medesimo oggetto, ci si è chiesti se si venga a configurare un unico reato o una pluralità di reati. Secondo la tesi sposata in giurisprudenza, si avrebbe unico reato solo nel caso in cui la falsa testimonianza venga reiterata nell’ambito della medesima fase processuale; con la conseguenza che nel caso, invece, in cui venga reiterata in una fase successiva, davanti ad altro giudice, si avrebbe una pluralità di reati.

L’art. 375 c.p. prevede una serie di aggravanti per il delitto in discorso, qualora da esso sia derivata una condanna alla reclusione non superiore a 5 anni; una condanna superiore a 5 anni; una condanna all’ergastolo. Occorre che si tratti di una condanna irrevocabile e che sia fondata sulla falsa testimonianza.

L’art. 376 c.p. prevede invece, quale causa di non punibilità, la ritrattazione: ovvero, una smentita del fatto deposto e la manifestazione del vero.

Controversi i rapporti tra il favoreggiamento personale e il delitto in parola. La giurisprudenza ritiene che tale delitto sia speciale nei confronti del favoreggiamento, trattandosi di un concorso apparente di norme.

Frode processuale (art. 374 c.p.)

Chiunque, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nell’esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone, è punito, qualora il fatto non sia preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La stessa disposizione si applica se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale, anche davanti alla Corte penale internazionale, o anteriormente ad esso; ma in tal caso la punibilità è esclusa, se si tratta di reato per cui non si può procedere che in seguito a querela, richiesta o istanza, e questa non è stata presentata

Bene giuridico : genuinità delle fonti di prova su cui si forma il convincimento del giudicante.

È un reato comune, potendo essere commesso da chiunque.

La condotta consiste nell’artificiosa alterazione o trasformazione materiale del vero (es. : cancellatura di una traccia, auto ferimento, etc.) disposta al fine di trarre in inganno il giudice nelle ispezioni giudiziali e negli esperimenti giudiziali, ovvero nell’espletamento del lavoro peritale (elencazione tassativa).

Trattasi di un reato di pericolo concreto, per cui è richiesta l’idoneità della condotta a generare la frode processuale; il che non si verifica quando la condotta è talmente grossolana da rilevare ictu oculi l’artificio.

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, essendo la condotta mossa dall’intento di trarre in inganno il giudice o il perito.

Al reato in parola si applica la causa di non punibilità di cui all’art. 384, co. 1 c.p., essendo a tal fine invocabile dall’agente il principio del nemo tenetur se detegere.

La norma ha carattere sussidiario, essendo applicabile nei casi in cui il fatto non sia preveduto come reato da altra disposizione (es. calunnia, simulazione di reato, favoreggiamento).

Intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.)

Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi .

La stessa disposizione si applica qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa.
Chiunque usa violenza o minaccia ai fini indicati al primo comma, soggiace, qualora il fine non sia conseguito, alle pene stabilite in ordine ai reati di cui al medesimo primo comma, diminuite in misura non eccedente un terzo.

Le pene previste ai commi primo e terzo sono aumentate se concorrono le condizioni di cui all’articolo 339.

La condanna importa l’interdizione dai pubblici uffici.

Il reato di cui all’art. 377 c.p. (ex subornazione) costituisce una forma speciale di istigazione a commettere falsità nella testimonianza, perizia o interpretazione e nelle false informazioni al P.M. o al difensore.

Trattasi un reato di pericolo concreto, posto a tutela della fedeltà delle informazioni al P.M. e al difensore, delle testimonianze, perizie e  interpretazioni.

È un reato comune, potendo essere commesso dal quisque de populo.

La condotta tipizzata consiste nell’offrire o promettere denaro o altra utilità  a taluni dei soggetti indicati nella norma, assistita dal dolo specifico, atteso che l’agente deve agire al fine di indurre il testimone, il perito o l’interprete a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 371 bis, 372 e 373 c.p.

Si è discusso in merito ai rapporti tra la norma in commento e il delitto di istigazione alla corruzione di cui all’art. 322 c.p. Si ritiene, sul punto, che nel caso in cui l’istigazione non sia accolta deve applicarsi, alla luce del principio di specialità, il solo art. 377 c.p.

Quanto, invece, ai rapporti con il delitto di corruzione in atti giudiziari, si ritiene che nell’ipotesi in cui l’istigazione sia stata accolta ma il falso non sia stato commesso, si applica il solo art. 377 c.p.

La questione più controversa che ha interessato la norma in commento, attiene tuttavia alla possibilità della configurazione del reato de quo, nel caso in cui l’offerta o la promessa di denaro o altre utilità sia stata rivolta al consulente tecnico del P.M., qualora questi non sia ancora stato citato in dibattimento e non abbia quindi ancora assunto la qualifica di testimone.

A coloro che sostenevano che andasse applicato in questi casi l’art. 322 c.p., si contrapponevano coloro che ritenevano configurarsi il delitto di cui all’art. 377 c.p., a nulla rilevando che il Consulente non fosse ancora stato inserito nella lista testimoniale di cui all’art. 468 c.p.p., atteso che la sua attività è per natura destinata a essere utilizzata in dibattimento.

La questione è oggi stata risolta da Cass. S.U., 23 ottobre 2013, n. 43384, che ha avallato il secondo dei due orientamenti esposti.

Favoreggiamento personale (art. 378 c.p.)

Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni.

Quando il delitto commesso è quello previsto dall’art. 416-bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni.

Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto.

Bene giuridico: in via generale, può individuarsi nell’interesse all’accertamento e alla repressione dei reati.

Pacifica la natura di reato di pericolo, non essendo necessario ai fini della sua configurabilità che la giustizia sia stata effettivamente fuorviata nel suo legittimo procedere.

Autore del reato può essere chiunque, ad eccezione del concorrente nel reato presupposto e – chiaramente – dell’autore del reato medesimo.

Presupposti per l’esistenza del reato di favoreggiamento sono:

  • la preesistenza di un reato, non accompagnato da una causa di giustificazione atta ad eliderne l’antigiuridicità;
  • l’assenza di concorso nel reato: l’agente, cioè, non deve avere avuto alcun coinvolgimento nella sua realizzazione.

La condotta incriminata consiste nell’aiutare taluno ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche dell’autorità.

La norma non precisa le modalità con il quale tale aiuto può essere prestato. Secondo un primo orientamento, tale reato sarebbe quindi a forma libera e di pura condotta; mentre secondo una diversa interpretazione, si tratterebbe di un reato di evento, dovendo avere la condotta l’effetto di migliorare, anche lievemente, la posizione di quest’ultimo con riguardo alle investigazioni e alle ricerche in atto da parte della Polizia o dell’Autorità giudiziaria.

Ritenuto dai più configurabile il tentativo, in particolare ogniqualvolta il mezzo adoperato non sia riuscito a concretizzare un effettivo aiuto alla persona indagata o ricercata.

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico.

Il secondo e terzo comma della norma in disamina prevedono rispettivamente una circostanza aggravante, nel caso in cui il reato presupposto sia quello di cui all’art. 416 bis c.p., e una circostanza attenuante, nel caso in cui il reato presupposto sia punito con una mera multa o sia una contravvenzione.

Particolarmente controversa è stata la questione relativa alla distinzione tra la condotta di favoreggiamento e la partecipazione ai reati associativi di cui agli artt. 416, 416 bis c.p. e 74 T.U. 309/1990. Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, il favoreggiamento andrebbe distinto dalla partecipazione associativa, quando l’aiuto prestato a taluno degli associati non si risolva in un contributo circa l’esistenza e il rafforzamento della’associazione in quanto tale, ma sia finalizzato specificamente ad aiutare la persona dell’associato.

Favoreggiamento reale (art. 379 c.p.)

Chiunque fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648, 648-bis, 648-ter, aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato, è punito con la reclusione fino a cinque anni se si tratta di delitto, e con la multa da euro 51 a euro 1.032 se si tratta di contravvenzione.
Si applicano le disposizioni del primo e dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente.

In ordine al bene giuridico tutelato, al soggetto attivo ed ai presupposti per l’esistenza del reato si rinvia integralmente a quanto detto per il delitto di favoreggiamento personale.

La condotta incriminata consiste nell’aiutare taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo del reato.

Anche qui è richiesto, dal punto di vista soggettivo, il dolo generico, consistente nella volontà e consapevolezza di aiutare l’autore di un reato precedentemente commesso a conseguire la definitiva acquisizione del vantaggio tratto dal fatto criminoso.

Per espressa previsione, il reato in parola ha natura sussidiaria rispetto ai reati di ricettazione, riciclaggio o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (artt. 648, 648 bis e 648 ter c.p).

Più in particolare, con riferimento alla ricettazione, la giurisprudenza ha sottolineato come il favoreggiamento reale se ne differenzi per la direzione della volontà dell’agente, che è rivolta esclusivamente a prestare aiuto all’autore del reato presupposto.

Evasione (art. 385 c.p.)

Chiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade è punito con la reclusione da uno a tre anni).
La pena è della reclusione da due a cinque anni se il colpevole commette il fatto usando violenza o minaccia verso le persone, ovvero mediante effrazione; ed è da tre a sei anni se la violenza o minaccia è commessa con armi o da più persone riunite .

Le disposizioni precedenti si applicano anche all’imputato che essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento se ne allontani, nonché al condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale.

Quando l’evaso si costituisce in carcere prima della condanna, la pena è diminuita.

Tale norma, inserita nel capo II del Titolo III (Dei delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie), tutela l’interesse al mantenimento delle forme di restrizione della libertà personale legittimamente disposte.

Pertanto, presupposto per l’esistenza del reato è costituito dall’assoggettamento dell’agente a uno stato di coercizione personale e soggezione fisica.

L’evasione si configura quindi come un reato proprio, potendo essere commesso solo dalla persona legalmente arrestata o detenuta. Si noti che tra i soggetti attivi del reato vanno annoverati anche i semiliberi, che si assentino senza giustificato motivo per oltre dodici ore rispetto al momento del dovuto reingresso nella struttura di detenzione; non vi rientrano invece le persone sottoposte ad una misura di sicurezza (v. art. 214 c.p.) o di prevenzione.

La condotta incriminata consiste nella sottrazione effettiva e completa alla restrizione della libertà personale da parte dell’agente, eludendo la sorveglianza da parte degli Organi ad essa preposti. È un reato a forma libera, essendo indifferenti le modalità con cui la condotta è posta in essere; l’unico limite è dato dall’impossibilità di realizzare il reato in forma omissiva. Né rileva la temporaneità della sottrazione, essendo sufficiente un allontanamento anche per breve tempo e assistito dal proposito di rientrare nel luogo di detenzione, al fine della configurabilità del reato.

Ammissibile il tentativo.

È richiesto il dolo generico dal punto di vista soggettivo, individuabile nella volontà di evadere con la consapevolezza di trovarsi in stato di legittima detenzione o di arresto.

Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.)

Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.

La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino a euro 309.

Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da lire sessantamila a lire seicentomila se il fatto è commesso dal proprietario su una cosa affidata alla sua custodia e la reclusione da quattro mesi a tre anni e la multa da euro 51 a euro 516 se il fatto è commesso dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa.

Il custode di una cosa sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 516.

La pena di cui al quinto comma si applica al debitore o all’amministratore, direttore generale o liquidatore della società debitrice che, invitato dall’ufficiale giudiziario a indicare le cose o i crediti pignorabili, omette di rispondere nel termine di quindici giorni o effettua una falsa dichiarazione.
Il colpevole è punito a querela della persona offesa.

L’orientamento ermeneutico prevalente ha riconosciuto alla norma in esame natura di reato plurioffensivo, posto a tutela delle decisioni dell’autorità giudiziaria, nonché – in via subordinata – dell’interesse del privato a favore del quale la sentenza o il provvedimento è stato emesso.

Si tratta di un reato proprio, che può essere perpetrato solo da chi rivesta una specifica qualifica soggettiva o si trovi nelle condizioni indicate dalla norma.

Quanto alle condotte incriminate, bisogna distinguere le diverse ipotesi previste dalla norma.

Il primo comma si riferisce alle ipotesi in cui, esistendo un obbligo imposto (o oggetto di accertamento) con provvedimento o sentenza emessa da parte dell’A.g., il soggetto – sul quale incombe detto obbligo – compie atti simulati o fraudolenti al fine di sottrarsi allo stesso (dolo specifico).

Il comma secondo ha invece riguardo a chi elude dolosamente l’esecuzione di un provvedimento civile, amministrativo o contrabile che sia relativo all’affidamento di minori o di altre persone incapaci, o alla prescrizione di misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

I commi terzo e quarto incriminano le condotte di sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento di una cosa di proprietà dell’agente medesimo che sia sottoposta a pignoramento o a sequestro giudiziario. Se l’agente è anche custode del bene, è previsto un aumento di pena.

Infine, il quinto comma incrimina il rifiuto, l’omissione o il ritardo di un atto del’ufficio da parte del custode di una cosa sottoposta a pignoramento o a sequestro (fattispecie speciale rispetto al delitto di cui all’art. 328, omissione d’atti d’ufficio).

 Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.)

Chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose, è punito a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 516.

Agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione.

Si ha, altresì, violenza sulle cose allorché un programma informatico viene alterato, modificato o cancellato in tutto o in parte ovvero viene impedito o turbato il funzionamento di un sistema informatico o telematico.

L’art. 392 c.p. apre il Capo III (Della tutela arbitraria delle private ragioni) del titolo III.

Il bene giuridico tutelato è costituito dall’interesse a garantire il monopolio esclusivo dell’Autorità giudiziaria nella soluzione delle controversie tra portatori di interessi in conflitto.

È un reato comune, potendo essere commesso da chiunque; in particolare da chi sia titolare del diritto preteso (o da parte di chi per conto del titolare legittimamente eserciti tale diritto).

Presupposto per la sua esistenza, è che il diritto preteso che si vuole difendere sia astrattamente tutelabile innanzi all’A.g.

La condotta incriminata consiste nel farsi arbitrariamente giustizia da sé mediante violenza sulle cose, ossia in qualsiasi fatto positivo violento, diretto a rimuovere ogni ostacolo frapposto all’attuazione del presente diritto.

L’elemento soggettivo è integrato dal dolo specifico, essendo la condotta finalizzata alla soddisfazione del diritto nel ragionevole convincimento della sua legittimità.

Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.)

Chiunque, al fine indicato nell’articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell’offeso, con la reclusione fino a un anno.

Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a euro 206.

La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.

La norma presenta contenuti sovrapponibili a quella precedentemente analizzata di cui all’art. 392 c.p. Se ne contraddistingue per la previsione della minaccia e per l’oggetto materiale, che non sono più beni materiali, ma la persona umana.

L’attività violenta o minacciosa può essere diretta anche verso persona diversa da quella che si trova in conflitto di interessi con l’agente, purchè sussista un nesso finalistico con la tutela delle proprie (asserite) ragioni.

Il reato in parola presenta molte similarità, quanto alla modalità del fatto, con altre fattispecie incriminatrici (violenza privata, estorsione, rapina), dalle quali si distingue per l’elemento psicologico che consiste nella ragionevole opinione di realizzare una pretesa legittima.

Con particolare riferimento all’estorsione, di recente Cass. pen. sez. II, 25 luglio 2014, n. 31224 ha affermato che i due reati si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere del tutto identico, ma per l’elemento intenzionale che integra la fattispecie estorsiva solo quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile innanzi all’A.g.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.