Disposizioni generali in materia di prove nel processo penale

Il nostro codice di rito dedica un intero libro, il libro III, alla prove nel processo penale, concentrandovi la disciplina dei mezzi di prova (titolo II) e dei mezzi di ricerca della prova (titolo III), dopo un preambolo dedicato alle disposizioni generali (titolo I), dal quale scaturisce una specie di catalogo dei principi-guida da osservarsi in materia probatoria.

Naturale domandarsi se le disposizioni contenute nel libro III del c.p.p. possano, o debbano, trovare applicazione anche al di là delle sedi naturalmente destinate alla formazione della prova (dibattimento ed incidente probatorio), ed in particolare nella fase delle indagini preliminari.

Il quesito ha evidente risposta positiva con riferimento ai diversi momenti, anteriori alla fase dibattimentale, in cui è previsto l’intervento del Giudice, ora in funzione di garanzia, ora in funzione di organo di decisione anche nel merito.

Più precisamente, il Giudice in sede di udienza preliminare o, ad esempio, chiamato a pronunciarsi sull’adozione di un provvedimento di natura cautelare, sarà senza dubbio tenuto ad osservare le disposizioni generali in tema di ammissione delle prove, sebbene con taluni accorgimenti di tipo interpretativo tesi a salvaguardare la compatibilità con la specifica sede di decisione in cui questi operi.

Assai più delicato è il discorso circa l’operatività delle disposizioni generali in materia di prove rispetto alle indagini preliminari svolte dal Pubblico Ministero, sia a causa della loro ordinaria inidoneità a conseguire risultati apprezzabili come prova in dibattimento, sia a causa della scelta legislativa di adottare per molti di questi atti una terminologia diversa rispetto ai corrispondenti atti compiuti di fronte al Giudice, proprio allo scopo di sottolinearne la differente rilevanza probatoria (es. accertamenti tecnici in luogo di perizia; individuazione in luogo di ricognizione; assunzione di s.i.t. in luogo della testimonianza; etc.).

Quanto detto, tuttavia, non può significare che il Pubblico Ministero possa operare nello svolgimento delle indagini preliminari legibus solutus, senza l’osservanza dei principi di fondo dettati per la particolare materia. D’altronde non va sottaciuto il fatto che le indagini preliminari del Pubblico Ministero siano suscettibili, in determinate ipotesi, ad assurgere a livello di prova, contribuendo alla formazione del convincimento del giudicante (si pensi agli accertamenti irripetibili, alle letture in udienza, all’acquisizione di atti investigativi su accordo delle parti, etc.).

Si è, pertanto, ritenuto che, non mancando nel codice un’apposita ed autonoma disciplina per gli atti di indagine del Pubblico Ministero omologhi ai tipici mezzi di prova, le norme previste per questi ultimi debbano trovare applicazione riguardo ai primi solo in via residuale, per gli aspetti cioè che non risultino coperti dalla loro specifica disciplina. Si tratterà evidentemente di un’operazione interpretativa piuttosto delicata, occorrendo verificare quando, nel silenzio serbato dal Legislatore nel disciplinare determinati aspetti della disciplina delle indagini preliminari, debba ravvisarsi una vera e propria lacuna da colmarsi facendo ricorso alla corrispondente disciplina dei mezzi di prova, ovvero quando vi si rifletta una consapevole scelta legislativa tale da escludere qualsiasi integrazione del genere.

Le disposizioni generali in commento si aprono con l’art. 187, dedicato alla definizione dell’oggetto della prova. Tale norma ubbidisce chiaramente all’esigenza di evitare che l’attività probatoria possa arbitrariamente orientarsi verso qualunque obbiettivo di verità storica, circoscrivendone invece l’operatività verso temi coessenziali all’oggetto del procedimento (c.d. pertinenza).

E così, costituiscono oggetto di prova, da un lato, i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità, nonché alla determinazione della pena o della misura di sicurezza (comma 1); dall’altro, i fatti processuali, o più precisamente, i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (comma 2).

Quando poi vi sia costituzione di parte civile, il thema probandum è destinato ad includere anche le questioni derivanti dall’esercizio dell’azione civile nel processo penale.

Proprio in relazione al thema probandum, è dato distinguere tra prove dirette e prove indirette, a seconda che esse si riferiscano o meno immediatamente all’oggetto della prova ex art. 187 c.p.p. Sono, pertanto, prove indirette quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da provare, bensì un altro fatto, dal quale però il Giudice potrà risalire – attraverso una operazione mentale di tipo induttivo – alla prova del primo (c.d. prove indiziarie).

Segue l’art. 188 c.p.p., il quale codifica – molto opportunamente – il principio secondo cui non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, tecniche o metodi probatori idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. Si pensi alla narcoanalisi, al c.d. lie detector, ai c.d. sieri della verità, etc.

Si noti come tale disposizione non si preoccupi affatto dell’eventuale attendibilità delle risultanze così conseguibili, essendo piuttosto l’art. 188 dedicato esclusivamente alla tutela della libertà morale della persona, in modo oggettivo, e quindi indipendentemente dell’eventuale consenso della medesima.

L’art. 189 c.p.p. si occupa, invece, delle c.d. prove atipiche, ossia non disciplinate dalla Legge.

Il nostro codice di rito non detta alcuna aprioristica preclusione nei confronti di queste, trasferendo in capo al Giudice, caso per caso, il compito di vagliare l’ammissibilità di tali prove.

Dovrà chiaramente trattarsi di prove non vietate dalla legge, e occorrerà, altresì, l’accertamento di due distinte valutazioni: da un lato, che tale prova risulti idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti, dall’altro che non pregiudichi la libertà morale della persona (v. art. 188 c.p.p.). Una volta valutata positivamente l’ammissibilità della prova atipica, il Giudice procederà a definire le modalità della sua assunzione, dopo aver sentito le parti.

Con l’art. 190 c.p.p. si entra nel campo della disciplina delle modalità di ammissione della prove, che costituisce certamente uno dei terreni sui quali è destinato a incidere più decisamente il nuovo modello del processo di parti. Corollario di questa impostazione è, infatti, il riconoscimento nei loro confronti di un vero e proprio diritto alla prova.

L’art. 190 non esista ad affermare a gran voce il principio per cui le prove sono ammesse a richiesta di parte, salvo i casi stabiliti dalla legge in cui le prove sono ammesse d’ufficio. Il Giudice provvede senza ritardo con ordinanza alla delibazione di ammissibilità che gli è domandata.

È utile qui accennare, incidenter, anche al diritto di controprova, riconosciuto all’imputato e al Pubblico Ministero dall’art. 495 comma 2 c.p.p., quale diritto ad ottenere l’ammissione delle prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico, in quanto tipica espressione della dialettica del contraddittorio, fino al punto da configurare uno specifico motivo di ricorso per Cassazione, proprio con riferimento all’ipotesi di mancata assunzione di una prova decisa a norma del predetto art. 495 comma 2.

Per quanto concerne i criteri cui deve ispirarsi la pronuncia del Giudice sull’ammissibilità delle prove richieste, tornando al disposto di cui all’art. 190 comma 1, il Giudice dovrà – anzitutto – escludere le prove vietate dalla legge; dopodiché dovrà escludere le prove che risultino in concreto, e manifestamente, superflue o irrilevanti.

Mentre il giudizio di rilevanza si riflette nella verifica circa la pertinenza della prova ai sensi dell’art. 187, quello sulla non superfluità ha riguardo all’utilità della prova, ovvero alla sua attitudine a contribuire positivamente all’arricchimento della piattaforma probatoria su cui dovrà fondarsi il convincimento del Giudice.

Rispetto alla disciplina ora accennata, assume carattere derogatorio l’art. 190 bis, relativo ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata indicati nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p. Segnatamente, vi si dispone che, nel corso di tali procedimenti, quando sia richiesto l’esame di un testimone (anche assistito) o di uno dei soggetti di cui all’art. 210, che abbiano già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento, purchè nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni dovranno essere utilizzate, ovvero in altri procedimenti abbiano reso dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti ai sensi dell’art. 238, l’esame di tali soggetti è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, ovvero quando il Giudice o una delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze.

La medesima disciplina, ai sensi del comma 1 bis del medesimo art. 190 bis, si applica anche all’esame di un testimone minore di anni sedici nei processi per i gravi delitti ivi indicati.

Si tratta di una disciplina volta a tutelare le persone da esaminare dal pericolo delle usura psicologica collegata all’eventualità di reiterate deposizioni sugli stessi temi, cui si aggiunge anche l’esigenza di evitare alle suddette persone la prospettiva della esposizione a ripetuti rischi o disagi personali.

A tutela del principio di legalità in materia probatoria, cui sono preposte le disposizioni generali qui in discorso, si pone soprattutto l’art. 191 nel sancire l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, cioè ammesse o assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.

L’art. 191 si presenta come norma generale di previsione della sanzione dell’inutilizzabilità, destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che prevedono un divieto probatorio, senza tuttavia prevede alcun riflesso sanzionatorio per la sua violazione.

Si è, inoltre, ritenuto che rientrano nella categorie delle prove sanzionate dall’inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p., non solo quelle oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla Costituzione, come nel caso degli artt. 13, 14 e 15, in cui la prescrizione dell’inviolabilità attiene a situazioni fattuali di libertà assolute, di cui è consentita la limitazione solo nei casi e modi previsti dalla legge (v. S.U. 13 luglio 1998, n. 21).

Chiude il titolo in oggetto l’art. 193 c.p.p., secondo cui nel processo penale non si osservano i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili, eccettuati quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza. Il riferimento alle questioni in tema di stato di famiglia o di cittadinanza si giustifica a fronte della delicatezza caratterizzante tali materie, tale da giustificare, altresì, l’eventuale sospensione del processo, in presenza dei presupposti disciplinati dalla Legge (v. art. 3 c.p.p.).

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.