L’esame delle persone imputate in un procedimento connesso (art. 210 c.p.p.)

Processo di Norimberga: la difesa e gli imputati
Processo di Norimberga: la difesa e gli imputati

L’esame delle persone imputate in un procedimento connesso, nei confronti delle quali si proceda, o si sia proceduto, separatamente, e che comunque non possono assumere l’ufficio di testimone ai sensi degli artt. 197-197 bis, è sottoposto ad un’apposita regolamentazione fissata dall’art. 210 c.p.p.

Vi si stabilisce, innanzitutto, che tali soggetti vengano di regola esaminati a richiesta di parte, ma possono, o debbano, esserlo anche d’ufficio, allorchè ai medesimi sia fatto riferimento nell’ambito di una testimonianza, o di un esame, di natura indiretta.

Le Sezioni Unite hanno affermato, sul punto, che l’imputato che, nel corso del suo esame, riferisca circostanze di fatto confidategli da terzi relativi a profili di altrui responsabilità va equiparato – in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 209 c.p.p. – all’imputato di procedimento connesso, di cui all’art. 210 c.p.p., con conseguente applicazione delle regole di cui all’art. 195 (S.U. 29 novembre 2012, n. 20804).

Quanto alle forme di svolgimento, per esplicito rinvio agli artt. 498, 499 e 500, si assume come modello di riferimento quello dell’esame dei testimoni, sia pure con i necessari adattamenti imposti dalla particolare posizione processuale delle persone che devono esservi assoggettate; basti pensare, in tal senso, alla partecipazione del loro difensore.

Ma elemento più importante di particolarità della disciplina consiste nell’esplicito riconoscimento a tali soggetti del diritto al silenzio, coessenziale alla loro qualità di imputati in un procedimento connesso.

Ne deriva che l’imputato predetto potrà essere sempre costretto a soggiacere al suo esame, salvo il diritto ad essere avvertito della facoltà di non rispondere e, chiaramente, di avvalersi di tale facoltà.

L’ambito di operatività dell’istituto in discorso si è notevolmente ridotto a seguito dell’introduzione nel nostro sistema processuale dell’art. 197 bis. Attualmente, i soggetti cui dovrà applicarsi la disciplina dettata dall’art. 210 c.p.p. non sono più, infatti, tutte le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12, nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente, bensì solo quelle non ricomprese nell’area degli imputati che, a norma dell’art. 197 bis, assumono l’ufficio di testimone.

Vale a dire, in altri termini, che la disciplina di cui all’art. 210 si applica alle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 comma 1 lett. a) (relativo al concorso di persone), le quali non possono assumere l’ufficio di testimone (incompatibilità assoluta ai sensi dell’art. 197 lett. a).

Va qui rilevato come le disposizioni delineate dall’art. 210 trovino applicazione anche quando la persona da esaminare è sottoposta alle indagini, e non ancora imputata. Ciò in virtù dell’art. 61 c.p.p., che estende i diritti e le garanzie dell’imputato alla persona sottoposta alle indagini e non vi è dubbio che la norma in discorso sia dettata in vista di una tutela rispetto alle possibilità di autoincriminazione, che per l’indagato vale non meno che per l’imputato (cfr., ex multis, Cass. sez.  V, n. 3422/1994).

Per quanto invece riguarda le persone che siano imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 comma 1 lett. c), occorre distinguere. La disciplina in oggetto si applica anche ai soggetti in questione, ma solo quando i medesimi non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato. Ci si riferisce, in sostanza, sia all’ipotesi in cui tali persone non sono mai state sentite, sia all’ipotesi in cui, pur essendo state interrogate, non abbiano reso in tale sede alcuna dichiarazione sull’altrui responsabilità, nonché, a ben vedere, anche a quella in cui le suddette persone, pur avendo reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, non abbiano ricevuto l’avvertimento di cui all’art. 64 comma 3 lett. c.),  con la conseguenza della loro inutilizzabilità e dell’impossibilità del dichiarante di assumere l’ufficio di testimone.

È  altresì previsto, con riferimento a tali soggetti, che, pur chiamati per essere esaminati a norma dell’art. 210, venga loro dato l’avvertimento di cui all’art. 64 comma 3 lett. c), nel qual caso, ove non si avvalgano della facoltà di non rispondere, gli stessi assumeranno l’ufficio di testimone su fatti che concernono la responsabilità di altri; come sarebbe stato, cioè, se già in precedenza essi fossero stati ritualmente interrogati sul punto.

In ipotesi del genere al loro esame dovranno, pertanto, applicarsi non solo le disposizioni relative all’esame ex art. 210, ma anche le disposizioni dettate dagli artt. 197 bis e 497, ivi compreso, quindi, l’avvertimento al testimone dell’obbligo di dire la verità.

Le dichiarazioni così rese, pur essendo annoverate tra le prove e non tra i semplici indizi, sono sottoposte a un giudizio di attendibilità che necessita di riscontri esterni. Esse devono cioè essere confortate da altri elementi o dati probatori (S.U. 3 febbraio 1990, n. 2477).

Vige, in sostanza, nei confronti di tali soggetti una presunzione relativa di inattendibilità, che il Giudice può superare mediante la valutazione delle dichiarazioni da essi rese unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità (v. art. 192 comma 3). Solo all’esito positivo di un tale riscontro, le dichiarazioni in discorso assumeranno, infatti, pieno valore probatorio e potranno essere utilizzate dal Giudice ai fini della decisione.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.