I delitti di corruzione propria ed impropria ex artt. 318 e 319 c.p.

Il tratto caratterizzante i delitti  di corruzione, c.d. propria e impropria, consiste nell’accordo (pactum sceleris) tra il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) ed il privato, avente ad oggetto il compimento da parte del pubblico ufficiale di un atto del suo ufficio o l’esercizio delle proprie funzioni (corruzione impropria, p. e p. dall’art. 318 c.p.) o di un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio o il mancato compimento di un atto del suo ufficio (corruzione propria, p. e p. dall’art. 319 c.p.).

Tali delitti configurano una tipica ipotesi di reato-contratto, che presenta un oggetto marcatamente illecito, atteso il principio di incommerciabilità delle funzioni pubbliche. Ne consegue l’inevitabile declaratoria di nullità del contratto per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c.

In relazione al momento temporale in cui il pubblico funzionario riceve la promessa o la dazione di denaro si distingue tra corruzione antecedente e susseguente.

In relazione al soggetto che si prende in considerazione invece, si distingue tra corruzione attiva (che guarda al privato) e corruzione passiva (che guarda al funzionario).

È un reato plurisoggettivo necessario e proprio, in cui vengono puniti tutti i compartecipi.

Prima dell’entrata in vigore della L. 190/2012, il codice penale distingueva due tipi di reati di corruzione:

1) Il reato di corruzione per un atto di ufficio ex art. 318 (c.d. corruzione impropria), ove il fatto incriminato al comma primo era quello del “pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa” (c.d. corruzione impropria antecedente) e, al comma secondo, quello del pubblico ufficiale che “riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto” (c.d. corruzione impropria susseguente).

2) Il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio ex art. 319 (c.d. corruzione propria) ove il fatto incriminato era (e tutt’oggi è) quello del“pubblico ufficiale che per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio riceve per sé o per un terzo denaro od altra utilità o ne accetta la promessa” .

La giurisprudenza (sia pure con riferimento alla sola corruzione propria) attribuiva – ante riforma 2012 – alla nozione di atto di ufficio, una vasta gamma di comportamenti, effettivamente o potenzialmente riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale (e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, la formulazione di richieste o di proposte, l’emissione di pareri, ma anche la tenuta di una condotta meramente materiale o il compimento di atti di diritto privato). È altresì giunta a prescindere dalla necessaria individuazione, ai fini della configurabilità del reato, di un atto al cui compimento collegare l’accordo corruttivo, ritenendo sufficiente che la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale fosse individuabile anche genericamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, sino al punto di affermare che integra il reato di corruzione (in particolare di quella propria) tanto l’accordo per il compimento di un atto non necessariamente individuato ab origine, quanto l’accordo che abbia ad oggetto l’asservimento ‐ più o meno sistematico ‐ della funzione pubblica agli interessi del privato corruttore, che si realizza nel caso in cui il privato prometta o consegni al soggetto pubblico, che accetta, denaro od altre utilità, per assicurarsene, senza ulteriori specificazioni, i futuri favori.

Tale orientamento giurisprudenziale è stato positivizzato dal legislatore che con la L. 190/2012 ha riscritto l’art. 318 c.p. lasciando però immutato l’art. 319 c.p. (relativamente al quale sono state inasprite le pene).

Il nuovo art. 318 c.p. rubricato, oggi, semplicemente “Corruzione per l’esercizio della funzione” dispone che “Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.

Le differenze rispetto al vecchio art. 318 c.p. sono molteplici:

1) anzitutto viene meno la distinzione tra corruzione impropria antecedente e susseguente;

2) viene soppresso il necessario collegamento della utilità o promessa ricevuta con uno specifico atto, da adottare o già adottato, dell’ufficio, divenendo quindi possibile la configurabilità del reato anche nei casi in cui l’esercizio della funzione pubblica non debba concretizzarsi in uno specifico atto (recependo così l’interpretazione giurisprudenziale sopra esposta).

Il terzo elemento di differenziazione è costituito dal fatto che nel vecchio art. 318 c.p. si faceva riferimento ad una “retribuzione non dovuta” sotto forma di danaro o altra utilità mentre nel nuovo art. 318 c.p. si fa riferimento al pubblico ufficiale che indebitamente riceve denaro o altra utilità.

La sostituzione della locuzione “retribuzione” con “denaro o altre utilità” è di fondamentale importanza in quanto proprio la qualificazione retributiva della dazione aveva alimentato quelle posizioni giurisprudenziali secondo cui la stessa traduceva la precisa volontà del legislatore di escludere dall’ambito di operatività della incriminazione tutte quelle situazioni non caratterizzate da un vero e proprio rapporto “sinallagmatico” tra la prestazione del corruttore e quella del corrotto e di includervi, al contrario, solo quelle dazioni o promesse proporzionate al tipo e all’importanza della prestazione richiesta al pubblico ufficiale, sicché, in definitiva, il reato doveva essere escluso sia nel caso di minima entità dell’utilità sia in quello di evidente sproporzione rispetto al vantaggio ottenuto.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.