Il principio di offensività del reato: reato di c.d. peculato telefonico e reati di falso

Il principio di offensività del reato subordina la sanzione penale all’offesa di un bene giuridico tanto nella forma della lesione, intesa come nocumento effettivo, quanto in quella dell’esposizione a pericolo, concepita in termini di nocumento potenziale.

Esso è volto a minimizzare le proibizioni penali, a ridurre al minimo necessario  l’intervento penale e perciò a rafforzare la sua legittimità e sua credibilità, in perfetta ossequianza al principio di sussidiarietà, secondo cui il ricorso alla previsione penale dev’essere considerato un’extrema ratio.

L’esplicita enunciazione costituzionale del principio di legalità in senso formale significa che in astratto qualunque fatto può diventare reato perché è sufficiente che sia pubblicata una legge che lo consideri tale.

Per temperare la rigidità della concezione formale è stato elaborato come principio costituzionale, il principio di offensività del reato, nel senso che il reato deve consistere in un’offesa di un bene giuridicamente tutelato. Esso per il diritto vigente deve costituire sia il parametro di legittimità costituzionale dei reati previsti e sia per il legislatore il limite costituzionale per la creazione di nuove figure di reato.

Il principio viene, pertanto, invocato:

– nel momento legislativo per vincolare il legislatore a costruire fattispecie incriminatici offensive di beni meritevoli di tutela;

– nel momento applicativo, posto che  l’interprete dovrebbe applicare la norma soltanto quando il fatto commesso risultasse concretamente offensivo del bene tutelato.

A livello di legge ordinaria ciò si deduce dal combinato disposto degli’artt. 43 c.p. e dall’art. 49 c.p. che, rispettivamente, statuiscono che l’esistenza del reato dipende dal verificarsi di un evento dannoso o pericoloso perché ove tale evento dannoso o pericoloso risulti impossibile non può essere inflitta alcuna pena.

A tal proposito si dice che il nostro ordinamento accoglie una concezione realistica del reato, nel senso che non può essere reputato come tale il fatto che non leda o non ponga nemmeno in pericolo un bene o un interesse altrui.

Da quanto suesposto discende che esistono ipotesi nelle quali è possibile realizzare una condotta (apparentemente) conforme al tipo e pur tuttavia,  questa  non risulta offensiva del bene giuridico tutelato.

L’adesione della concezione realistica del reato da parte della giurisprudenza di legittimità, ha portato ad escludere in più occasioni la punibilità di fatti che pur conformi alla fattispecie legale sono ritenuti privi di un apprezzabile significato lesivo. La questione assume rilievo con riguardo ai reati plurioffensivi, la cui incriminazione risponde all’esigenza di tutelare più beni giuridici, e per la cui consumazione, tuttavia, è sufficiente ad integrare il reato la lesione di uno soltanto dei beni protetti.

L’analisi di tale categoria, ad esempio, è stata condotta mediante il riferimento all’art. 314 c.p. rubricato “peculato”, con riferimento al quale si è sostenuto che ha natura plurioffensiva, in quanto tutela sia i beni patrimoniali della P.A. che la loro funzionalità operativa.

Il diffuso (e certamente deprecabile) fenomeno rappresentato dall’utilizzo, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, del telefono “d’ufficio” per effettuare telefonate personali è stato oggetto, negli ultimi anni, di costante attenzione dottrinale e giurisprudenziale

La Suprema Corte ha escluso la configurabilità del delitto previsto e punito dall’art. 314 c.p., in virtù dell’eseguo valore della cosa oggetto di appropriazione da parte del pubblico ufficiale, non ritenendo determinante ai fini della consumazione il profilo relativo alla violazione del dovere di fedele e onesta amministrazione. In una seguente decisione, in un caso simile, la Corte afferma che il valore economico della cosa acquista decisiva importanza ai fini della sussistenza dell’elemento materiale del reato di cui all’art. 314 c.p.

Le argomentazioni della Corte involgono riflessioni che hanno come punto d’abbrivio sempre la qualificazione di reato plurioffensivo del delitto di peculato (poiché da un lato vi è il delitto di abuso della situazione giuridica di cui il soggetto è titolare, dall’altro il delitto contro il patrimonio pubblico) unitariamente volto a tutelare l’integrità economica e la destinazione pubblicistica. L’approdo giurisprudenziale ritiene che nel rapporto tra i due interessi tutelati quello cui dare prevalenza – anche in considerazione degli elementi costitutivi della fattispecie  – non può che essere il pubblico patrimonio, in quanto il peculato si realizza con l’appropriazione a proprio profitto e per finalità diverse da quelle di ufficio di un bene economico rientrante nella sfera pubblica. Ciò in quanto, la norma in commento presuppone che le cose oggetto di peculato abbiano un valore economico. Per cui il reato non sussiste nel caso in cui non,soltanto esse ne siano prive, ma anche laddove abbiano valore di tale modesta entità da non arrecare alcuna lesione all’integrità patrimoniale della pubblica amministrazione.

Nell’ambito del peculato cd. telefonico, le «singole condotte», la cui offensività per il patrimonio (e per la funzionalità) della pubblica amministrazione dovrebbe essere verificata, non potrebbero che identificarsi con le singole telefonate, le quali sembrerebbero raramente in grado di raggiungere, se valutate “una per una”, la soglia del penalmente rilevante.

Nessun problema può porsi qualora le telefonate indebite siano realizzate con un’utenza pubblica regolata da un contratto a tariffazione forfettaria (cd. “tutto incluso”); in questo caso, infatti, salvo si realizzino pregiudizi importanti alla funzionalità dell’ufficio pubblico in questione, il pregiudizio patrimoniale per la pubblica amministrazione di riferimento è certamente assente, indipendentemente dal numero delle telefonate realizzate dal dipendente infedele. La questione sorge nel diverso caso – tutt’altro che infrequente – in cui le telefonate indebite, singolarmente considerate, possiedano una gradiente di offensività patrimoniale minima – ancorché non assente – , mentre invece, valutate nella loro globalità, siano foriere di un danno patrimoniale rilevante per la pubblica amministrazione. Si pensi, ad esempio, ad un sindaco di un Comune di confine che, con il cellulare di servizio, effettua, nel corso di un anno solare, diverse migliaia di telefonate alla propria amante svizzera, ciascuna delle quali del costo di pochi centesimi di euro, ma che, nell’insieme, gonfiano in maniera notevole la bolletta dell’ente territoriale: in un caso siffatto, il criterio di valutazione dell’offensività “divisibile” indicato dalla Suprema Corte non potrebbe che portare all’assoluzione del pubblico funzionario, nonostante la sussistenza di un evidente (e rilevante) danno al patrimonio pubblico.

La soluzione indicata dalla Corte per la valutazione del raggiungimento della soglia di offensività in concreto, a parere di chi scrive, non convince. Il tema è ovviamente complesso, e richiederebbe un approfondimento che esula da questa sede; tuttavia, la strada per superare l’impasse potrebbe essere rappresentata dalla rigorosa distinzione tra i casi di radicale inoffensività del fatto concreto – in cui il pubblico ufficiale dovrebbe andare in ogni caso esente da pena – e i casi di limitata lesività del fatto – ove, invece, la sussistenza di un danno effettivo dovrebbe essere valutata con riferimento alla globalità delle condotte imputate al soggetto agente, a meno di voler in definitiva relegare l’art. 314, co. 2, c.p. ad una pratica inapplicabilità, proprio ai casi più insidiosi di peculato telefonico.

Altro settore nel quale l’orientamento della concezione realistica del reato da parte della giurisprudenza ha trovato più diffusa espressione sono i reati di falso.

Il concetto di fede pubblica intorno a cui si è costruito un intero titolo del codice penale, ha come minimo comune denominatore della costruzione legislativa il bene giuridico che si assume tutelato dai reati: la fede pubblica per l’appunto.

Alla nozione di pubblica fede più o mena eticizzata dai compilatori del codice Rocco si sono aggiunte varie concezioni, la più importante delle quali la identifica nella fiducia che la sociètà ripone negli oggetti, segni, forme esteriori, simboli sulla cui genuinità o autenticità deve potersi fare assegnamento al fine di rendere certo e sollecito lo svolgimento del traffico economico e/o giuridico.

La debolezza della costruzione della nozione di fede pubblica come bene giuridico trova origine nella prassi giudiziaria in cui proliferano concetti quali “falso grossolano”, “falso innocuo”, “falso inutile”, “falso consentito”.

In particolare con l’espressione falso innocuo viene generalmente indicata una pluralità di fattispecie diverse accomunate dalla mancanza o, pretesa mancanza, di effetti lesivi  sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici in materia di delitti contro la fede pubblica. Nello specifico, consiste nell’inidoneità del falso (di per sé lesivo della pubblica fede) a ledere gli interessi che sono tutelati dalla legge.

Muovendo dall’art. 49 comma 2, c.p.  per il quale “la punibilità è esclusa, per inidoneità dell’azione o per l’insussistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso” e quindi dal principio della necessaria offensività del reato, il falso è innocuo quando si rivela, in concreto, inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, rispetto all’interesse finale perseguito dall’autore del falso.

In altri casi, giacché, il principio di offensività, operando sul piano della qualificazione normativa dei fatti che costituiscono reato, stabilisce la conformità di essi alle regole dell’ordinamento giuridico. Ciò porta a far emergere la presenza, all’interno delle determinate fattispecie penali, di elementi di inconsistenza.

Tale ad esempio è il caso del reato di frode processuale previsto e punito dall’art. 374 c.p.

La fattispecie riguarda la c.d. immutatio veri: il colpevole al fine di trarre in inganno il giudice o il perito, muta artificiosamente lo stato dei luoghi, cose o persone; ove artificiosamente nella grammatica del codice assume il significato di frode ovvero al fine di ingannare.

Il delitto de quo è fattispecie di pericolo a dolo specifico pertanto l’evidente difetto di potenzialità ingannatoria della condotta ne esclude in radice la concreta pericolosità per l’interesse protetto dalla norma incriminatrice, che è costituito dalla genuinità di taluni, specifici mezzi di prova, fonti del convincimento del giudice, in funzione di corretta formazione delle ragioni del decidere.

La Suprema Corte ha accertato, infatti, a Sezioni Unite, che rispetto alla norma in commento, in mancanza di idoneità degli atti a trarre in inganno, da accertarsi con valutazione, ex ante e in concreto, segue un giudizio di inesistenza del reato qualora  difetti la concreta pericolosità della condotta ingannatrice; ossia, quando non sono strutturalmente individuabili atti di immutazione dei luoghi, delle cose o delle persone, aventi potenzialità ingannatorie perché posti in essere in modo grossolano. Tale grossolanità non impedisce la ricostruzione dell’intero contesto della vicenda criminosa, che anzi, secondo il senso comune e la diffusa esperienza giudiziale, abbraccia nella sua prospettiva storico-fenomenica anche questi gesti.

La disamina che precede conduce dunque alla conclusione che per la Costituzione italiana e per l’intero nostro ordinamento penale è reato il fatto previsto come tale dalla legge, in forma tassativa e con effetto irretroattivo, materialmente estrinsecatosi nel mondo esteriore, offensivo di valori costituzionalmente significativi o, comunque, non incompatibili con la Costituzione, casualmente e psicologicamente attribuibile ad una persona, sanzionato con pena proporzionata al valore tutelato e alla personalità dell’agente, umanizzata e tesa alla rieducazione del condannato; sempreché la sanzione penale sia necessaria per l’inadeguatezza delle sanzioni extrapenali a tutelare tali valori.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.