Il profitto nei reati tributari

In caso di condanna (o di applicazione della pena su richiesta delle parti, c.d. patteggiamento) per uno dei delitti previsti dalla legge sui reati tributari, è sempre ordinata la confisca (anche per equivalente) dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato (cfr. art. 12 bis d.lgs. 74/2000).

Nè nel codice penale, né nelle varie disposizioni extracodicistiche che ne prevedono la confisca, è dato rivenire una una nozione generale di profitto. Esso è stato, tuttavia, definito dalla giurisprudenza come il ‘‘vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato”.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite per lungo tempo e in molteplici occasioni ha richiesto, ai fini della confisca penale, un rapporto di pertinenzialità diretta del profitto con il reato, in forza del quale i beni da confiscare siano determinati escludendo le maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e non essenziali alla commissione del reato medesimo – quelle, cioè, costituenti una conseguenza eventuale o comunque indiretta dell’attività criminosa (ci si può riferire, ad esempio, agli importi risultanti da investimenti successivi delle somme in altre attività lecite ovvero ai proventi di attività ulteriori estranee alla struttura essenziale del reato).

Proprio il parametro della pertinenzialità al reato del profitto ha rappresentato (e rappresenta, in generale) l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità dall’illecito (v. Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Impianti s.p.a. e altri).

In tema di reati tributari, tuttavia, nella gran parte dei casi (salvo le marginali fattispecie di indebito rimborso), il profitto del reato si realizza attraverso il mancato pagamento della imposta dovuta e, quindi, mediante un risparmio di spesa che si traduce non in un miglioramento della situazione patrimoniale dell’agente (o dell’ente, in caso di responsabilità amministrativa da reato), quanto, piuttosto, in un mancato decremento patrimoniale.

Ecco, dunque, che il concetto di profitto è stato giurisprudenzialmente esteso a qualsiasi vantaggio economico derivante dalla condotta illecita, per giungere a includere, in tale accezione, anche il “risparmio di spesa o di imposta”. E così, le Sezioni Unite con sentenza n. 4097/2016:In tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’articolo 11, D.Lgs. 74/2000, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario”; o, ancora, le Sezioni Unite con sentenza n. 18374/2013: “Nel delitto di dichiarazione infedele commesso mediante indicazione di elementi passivi fittizi, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, ben può essere costituito dal risparmio di imposta assicurato per gli anni successivi per effetto della minor perdita rispetto a quella dichiarata, a condizione che sia fornita la prova di un effettivo beneficio fiscale mediante l’esposizione dei suddetti costi fittizi, relativo, dunque, a fattispecie di reato diversa da quella contestata”.

Nella pratica, non può essere disconosciuto il conseguimento anche di un profitto indiretto dovuto, per esempio, al mancato pagamento degli interessi passivi (ad esempio, per non aver fatto ricorso al capitale dei terzi a motivo della maggiore disponibilità finanziaria), ovvero alla possibilità di praticare prezzi inferiori sul mercato e vincere la concorrenza, conseguendo, comunque, maggiori ricavi per effetto delle maggiori vendite. Tale profitto, in quanto indirettamente collegato alla commissione del reato, non acquista tuttavia rilevanza ai fini della confisca. Una tale estensione del concetto di profitto comporterebbe infatti l’ennesimo rischio di interpretazione analogica in malam partem, che stante la natura sanzionatoria del provvedimento ablativo, entrerebbe in sicura violazione con il principio di stretta legalità. Da qui la necessità di interpretare la nozione di profitto confiscabile derivante da reato in termini rigorosi.

Se così è, deve ritenersi che il mancato pagamento della sanzione tributaria, conseguente al compimento e accertamento dell’illecito tributario, non può affatto essere definito, come invece la giurisprudenza di legittimità pare ritenere, come un vantaggio direttamente collegato al fatto di reato, di penalistica rilevanza. La sanzione tributaria discende infatti dall’applicazione dell’illecito tributario e non dal compimento del reato, ed è connessa direttamente ed eziologicamente all’accertamento dell’illecito tributario. Ciononostante, nella giurisprudenza, la tendenza è ad ammettere che la quantificazione del risparmio di spesa (costituente il profitto nei reati tributari)  sia comprensiva del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario.

Si veda, ad esempio, la recente sentenza n. 267/2018 con cui la III sezione della Suprema Corte di Cassazione ha affermato come nei reati tributari il profitto sia rappresentato da qualunque risparmio conseguito dal contribuente, dovendo pertanto essere ricompresi nella nozione di profitto anche interessi e sanzioni oltre alle imposte (in senso conforme, cfr. anche  Cassazione, sentenza n. 4567/2015).

Tale principio è invero già stato oggetto di affermazione da parte delle Sezioni Unite, ma con riguardo al caso di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000). La soluzione era certo corretta per il delitto di sottrazione fraudolenta, in cui il contribuente non solo agisce per non versare il debito di imposta, ma anche (o anche solo) per non versare interessi e sanzioni, con la conseguenza che, in siffatta ipotesi il profitto del reato, oggetto di confisca, è effettivamente pari, all’intera pretesa tributaria (imposta e accessori).

Tale principio, tuttavia, ove applicato indiscriminatamente all’intera aera dei reati tributari, rischia di raddoppiare l’importo dei sequestri disposti in sede penale per effetto della duplicazione delle sanzioni amministrative. Non può dunque che auspicarsi sul punto un intervento chiarificatore della Corte di Legittimità.

 

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.