Indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito: punibili anche i congiunti conviventi?

Com’è noto, il D.lvo n. 21/2018 (entrato in vigore il 06 aprile del 2018),  ha apportato una serie di modifiche al codice penale con l’introduzione di nuove fattispecie criminose, tra cui l’articolo 493 ter, rubricato “Indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamentoQuesto il testo di cui al primo della fattispecie di nuovo conio:

Chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi“.

La nuova fattispecie criminosa richiama espressamente il comma 9 dell’articolo 55 D.lvo 231/2007, che regolarizzava le ipotesi di utilizzo illecito degli strumenti di pagamento. Ci si trova, pertanto, innanzi a un’ipotesi di abolitio criminis parziale del citato art. 55.

L’art. 493 ter rappresenta un reato comune, punibile a titolo di dolo generico, posto a tutela del mercato finanziario e inserito nel titolo sui delitti contro la fede pubblica. Ciò presuppone che, il bene giuridico tutelato sia proprio la fede pubblica, per tale dovendosi intendere la fiducia riposta dalla collettività in un determinato simbolo, atto giuridico o oggetto, al fine di assicurare la certezza, sicurezza e rapidità dei traffici giuridici.

Tale scelta di collocazione non è, invero, privo di conseguenze significative. Le perplessità maggiori si incentrano sulla impossibilità di applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p., ove il reato di indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito o di pagamento sia commesso dal figlio, piuttosto che dalla moglie convivente, da un genitore, etc.

L’articolo 649 c.p. espressamente prevede che non è punibile chi ha commesso dei reati contro il patrimonio in danno: del coniuge non legalmente separato; di un ascendente o discendente; di un affine in linea retta; dell’adottante o dell’adottato; del fratello o della sorella conviventi. E ciò al fine di tutelare l’integrità della famiglia da eventuali turbamenti generati dalle intromissioni della giurisdizione al suo interno.

La applicabilità di tale causa di non punibilità esclusivamente ai reati contro il patrimonio, escluderebbe la sua applicazione alla fattispecie di cui all’articolo 493 ter c.p. Da ciò deriverebbe, a titolo esemplificato, che la condotta di indebito utilizzo di una carta di credito o di uno strumento di pagamento  (es. bancomat) da parte di un soggetto collegato al titolare da un vincolo familiare non potrà essere scriminata dall’art. 649 c.p.

La necessità di tutelare la fede pubblica riposta nell’utilizzo di determinati strumenti di pagamento  ha evidentemente indotto il legislatore a inserire appositamente la nuova fattispecie penale nel capo terzo del titolo VII del codice penale, proprio per negare l’applicazione della condizione di non punibilità  alle condotte di cui all’articolo 493 ter commesse da soggetti legati da vincoli di familiarità.

Si resta comunque in attesa dei primi sviluppi giurisprudenziali sul punto.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.