Nella tradizione penalistica dell’Europa continentale si è per lungo tempo sostenuto l’insussistenza della responsabilità degli enti dipendente da reato, sull’assunto che societas delinquere non potest: ciò essenzialmente sulla scorta del principio costituzionale di cui all’art. 27 Cost. che, consacrando la natura personale della responsabilità penale, postula un coefficiente di partecipazione psichica in capo all’autore, il solo idoneo a giustificare una risposta sanzionatoria con finalità rieducative; ragion per la quale si è ritenuto non essere ipotizzabile una responsabilità penale in capo alle persone giuridiche.
Tuttavia, a fronte del sempre crescente fenomeno di delinquenza societaria, realizzata sulla scorta di scelte generali di organizzazione o di politica di impresa, si è avvertita l’esigenza di criminalizzazione di alcune fattispecie riguardanti anche le persone giuridiche, quali dirette responsabili della condotta societaria penalmente rilevante.
Nel tentativo di conciliare tali esigenze di criminalizzazione con il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale, si è giunti alla disciplina dettata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in cui la responsabilità dell’ente, seppur qualificata come amministrativa dipendente da reato, pare assumere comunque , per alcuni aspetti, carattere penale.
Il citato d.lgs. estende agli enti l’applicabilità di alcuni principi di matrice penalistica; l’art. 2 prevede infatti che la persona giuridica non può essere ritenuta responsabile se non per un fatto costituente reato ai sensi della legge penale (principio di legalità); prima della commissione del fatto, la legge deve espressamente prevedere la responsabilità amministrativa dell’ente in relazione a quel reato (principio di tassatività e irretroattività).
Il successivo art. 3 enuclea una disciplina del fenomeno di successione di leggi nel tempo, riproducendo quella prevista dagli artt. 2, commi 2,3 e 4 c.p. La persona giuridica non può essere assoggetta a sanzione amministrativa non solo se l’illecito penale, presupposto della sua responsabilità, non è più previsto dalla legge come reato, ma anche se per un fatto che continui a costituire reato, la responsabilità dell’ente non sia più prevista dalla legge in relazione al medesimo. Inoltre, in caso di intervento di leggi modificative nel tempo, deve trovare applicazione la norma più favorevole.
Ambito soggettivo di applicazione
Relativamente all’ambito soggettivo di applicazione, l’art. 1 individua tra i soggetti cui si applicano le disposizioni del d.lgs. 231/2001: gli enti forniti di personalità giuridica; le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica. Ne restano invece esclusi: lo Stato; le Regioni; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (tra cui vanno ricompresi i partiti politici ed i sindacati).
In relazione all’ambito soggettivo di applicazione, tra i primi dubbi interpretativi suscitati dalla disciplina in esame, si era in particolare posto all’attenzione della giurisprudenza di legittimità quello relativo all’applicabilità del d.lgs. 231/2001 all’impresa individuale. Secondo un primo e più datato orientamento, la Cassazione ha fornito una risposta negativa al quesito, sostenendo che presupposto della responsabilità in questione risulta essere la possibilità di una distinzione soggettiva tra autore del reato e il soggetto giuridico responsabile dell’illecito amministrativo, che si è evidentemente avvantaggiato del reato commesso. A ciò si aggiunga che ammettendo la punibilità dell’imprenditore individuale, si finirebbe per violare il principio del ne bis in idem, dal momento che le conseguenze del medesimo fatto illecito sarebbero nuovamente poste a carico del reo (titolare dell’impresa), già perseguibile penalmente quale persona fisica autrice del reato (c. Cass. Pen. sez. VI, 18941/2004).
Tuttavia, la più recente giurisprudenza è pervenuta all’opposta soluzione. In particolare, Cass. Pen. sez. III, n. 15657/2011 ha affermato come non possa ad oggi negarsi che l’impresa individuale ben può assimilarsi a una persona giuridica, tenendo soprattutto conto del fatto che molte imprese individuali ricorrono spesso ad un’organizzazione interna complessa che prescinde dal sistematico intervento del titolare dell’impresa e che può spesso involgere la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore che operano nell’interesse della stessa impresa individuale. L’esclusione dell’impresa individuale dall’ambito di applicazione del d.lgs. 231/2001 rischierebbe pertanto di creare un vuoto normativo, idoneo a determinare una disparità di trattamento tra coloro che ricorrono a forme semplici di impresa e coloro che ricorrono a forme societarie ben più articolare e complesse.
Non è mancato chi ha criticato una tale impostazione, osservando come essa si traduca in una inammissibile estensione analogica in malam partem dell’art. 1 d.lgs. 231/2001, posto che le imprese individuali sono soggetti per definizione sprovvisti di personalità giuridica, la quale com’è noto si riferisce ai soli soggetti giuridici che hanno un patrimonio autonomo rispetto a quello delle persone fisiche che li costituiscono.
La giurisprudenza si è poi trovata a risolvere il problema della responsabilità amministrativa da reato delle società capogruppo.
Secondo l’orientamento ad oggi prevalente è ipotizzabile una responsabilità della società capogruppo per i reati che, verificatisi nell’esercizio delle attività delle società controllate, risultino commessi nell’interesse dell’intero raggruppamento, anziché in quello esclusivo dell’organismo societario di riferimento. Le condizioni per cui possa affermarsi la responsabilità di una holding ai sensi del d.lgs. 231/2001 sono tre, in particolare occorre:
- che sia stato commesso uno dei reati tassativamente elencati dal suddetto decreto;
- che il reato presupposto venga commesso da una persona fisica che rivesta una posizione apicale all’interno dell’ente;
- che il reato venga commesso nell’interesse o a vantaggio dell’intero gruppo.
Dibattuta è poi stata l’applicabilità della disciplina in esame a società a partecipazione mista, pubblica e privata.
In particolare, Cass. Pen. sez. II, n. 28699/2010 ha dato risposta positiva al quesito, prendendo le mosse dal tenore letterale dell’art. 1 del decreto, laddove esclude dall’ambito di operatività della disciplina soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionali e gli altri enti pubblici non economici. La natura pubblicistica dell’ente è quindi condizione necessaria, ma non sufficiente, occorre altresì che l’ente medesimo non svolga attività economica. Ebbene la veste societaria preclude a monte la possibilità di riscontrare l’assenza di attività economica, essendo la società costituita sempre per l’esercizio di un’attività economica al fine di dividerne gli utili, a prescindere da quello che sarà il loro reimpiego.
Ambito oggettivo di applicazione
Venendo ai criteri di imputazione della responsabilità di cui al d.lgs. 231/2001, essi possono distinguersi in criteri oggettivi e soggettivi.
Sotto il profilo oggettivo occorre che il soggetto autore del reato abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente: l’interesse descrive la proiezione finalistica della condotta e va valutato esclusivamente in una prospettiva ex ante; il vantaggio evidenzia il concreto risultato conseguito per effetto della condotta criminosa e va accertato ex post.
In ordine alla nozione di interesse, si segnala Cass. Pen. sez. V, 24 settembre 2013, n. 45969, che ha statuito come di fronte alla commissione di condotte autonome appropriative da parte degli amministratori di una società, non è corretta l’argomentazione secondo cui la fittizia copertura del passivo avrebbe consentito alla società di proseguire la propria attività di riscossione, procurandole così un evidente vantaggio; potendo l’attività degli amministratori infedeli essere stata funzionale esclusivamente ad assicurare loro medesimi una copertura alle illecite appropriazioni. La sussistenza dell’interesse va accertata con analisi ex ante; può affermarsi l’assenza di responsabilità dell’ente quando si accerti che il reato è stato commesso nell’interesse esclusivo di terzi o di persone fisiche.
Occorre poi che l’autore del reato da cui dipende la responsabilità dell’ente rivesta una posizione apicale all’interno del medesimo, svolgendo (anche di fatto) funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione; quanto ai soggetti sottoposti, per le azioni di questi ultimi si configura la responsabilità dell’ente solo se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza da parte dei soggetti dotati di poteri di gestione.
Particolarmente dibattuta è la compatibilità dei criteri d’imputazione con l’inserimento nella lista dei reati-presupposto di fattispecie colpose (es. omicidio o lesioni colpose a causa di violazione di norme antinfortunistiche).
Ci si è infatti chiesti se sia ipotizzabile la commissione di un reato colposo nell’interesse o a vantaggio dell’ente, ovvero se si possa finalizzare un evento colposo, quindi non voluto, a vantaggio dell’ente.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, dovendosi fornire un’interpretazione utile alla norma evitandone un effetto abrogante, è necessario valorizzare in tali ipotesi di il criterio del vantaggio e non dell’interesse, accertabile ex post, avendo riguardo unicamente all’utilità realmente conseguita dall’ente. In senso critico si è però osservato che, se il vantaggio che l’ente consegue in violazione della normativa contro gli infortuni sul lavoro consiste nel risparmio di costi di gestione e produzione, l’effettivo conseguimento di un vantaggio dell’ente non sarebbe agevolmente accertabile ove a tale condotta siano ascrivibili reati di omicidio o lesioni colpose, dovendosi tenere conto anche delle conseguenze connesse a quell’evento lesivo integranti spesso un costo consistente per l’ente (si pensi al risarcimento del danno).
È pertanto emerso un secondo orientamento, secondo cui l’interesse va riferito non all’evento, non voluto per definizione nelle condotte colpose, ma alla condotta in sé tenuta dal reo. Può infatti ben accertarsi che il reo abbia violato le norme antinfortunistiche agendo nell’interesse dell’ente, con l’intento di procurare a questi un risparmio sui costi della sicurezza o allo scopo di velocizzare i tempi di produzione, sebbene poi tale vantaggio non sia stato conseguito per il verificarsi di un fatto di reato in conseguenza delle violazioni perpetrate.
Quanto ai criteri di imputazione di tipo soggettivo, è necessaria la colpevolezza dell’ente, che può atteggiarsi come dolo, qualora l’illecito commesso sia il risultato di una precisa politica aziendale, ovvero come colpa, consistendo in tal caso nella mancata adozione di modelli di organizzazione o nell’omessa vigilanza sui comportamenti dei dipendenti. L’illecito è quindi imputabile all’ente, quando questi abbia determinato con dolo o consentito per colpa il reato del singolo con la propria carente regolamentazione.
Nel caso in cui il reato commesso a vantaggio/interesse dell’ente sia commesso da un soggetto in posizione apicale (art. 6, co. 1), vige una presunzione relativa di responsabilità dell’ente, posto che l’ente non risponderà per l’illecito commesso solo ove dimostri:
- l’adozione e l’efficace attuazione, prima della commissione dell’illecito, di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello commesso;
- il conferimento ad un organismo interno dell’ente di compiti di vigilanza sul funzionamento, osservanza e aggiornamento dei suddetti modelli;
- la realizzazione del reato da parte di soggetti che hanno fraudolentemente eluso tali modelli;
- l’omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui al n. 2.
Ove invece autore del reato sia un soggetto sottoposto, la responsabilità dell’ente si fonda sulla circostanza che la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza. Circostanza che dovrà però essere provata dal PM, non essendo vigente nessuna presunzione sul punto (art. 7, co. 2).
I modelli di organizzazione e gestione
Guardando ai modelli di organizzazione, essi integrano uno strumento di prevenzione ed assumono un rilievo centrale nella disciplina dettata dal d.lgs. 231/2001, in quanto fungono da criteri di esclusione della responsabilità dell’ente.
Ai sensi dell’art. 6 co. 2 tali modelli devono individuare le attività nell’ambito delle quali possono essere commessi reati, prevedere protocolli idonei e programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati, prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo di vigilanza sull’osservanza dei modelli, ed infine introdurre sanzioni disciplinari per il mancato rispetto delle direttive contenute in tali modelli.
Quanto alla loro natura giuridica, nonostante la relazione governativa al d.lgs. 231/2001 abbia parlato di “scusanti”, tale definizione non è da tutti condivisa, non essendo mancate alcune definizioni in termini di esimenti o di cause di esclusione della responsabilità. Altra dottrina poi ha sostenuto che tali modelli individuino un’area di rischio consentito, entro cui l’ente può operare esente da responsabilità.
I reati-presupposto
Il d.lgs. 231/2001 indica tassativamente i reati di cui sono chiamati a rispondere gli enti. L’elenco di tali reati è stato nel tempo ed in più occasioni ampliato dal Legislatore: il testo originario del decreto conteneva pochi delitti dolosi attinenti ai rapporti con la Pubblica Amministrazione (malversazione in danno dello Stato, truffa e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico, concussione e corruzione); a questi sono poi stati aggiunti, tra i più importanti, i reati societari, gli abusi di mercato, i reati informatici, i reati transnazionali e i reati ambientali. Con la riforma in materia di sicurezza sul lavoro (l. 3 agosto 2007, n. 123), la responsabilità degli enti è stata collegata per la prima volta ai delitti colposi, quali l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose, commessi con violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene del lavoro.
Sorprende, invece, che non abbiano ancora trovato spazio in tale elencazione i reati tributari.
Trattamento sanzionatorio.
Quanto alle sanzioni previste per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato previsti dal decreto, esse consistono:
- in sanzioni pecuniarie, sempre previste ed il cui importo è calcolato proporzionalmente alla gravità dell’illecito;
- in sanzioni interdittive, applicabili congiuntamente a quelle pecuniarie nelle ipotesi espressamente previste o in caso di reiterazione degli illeciti o del perseguimento di un profitto di rilevante entità da parte dell’ente. L’ente può sottrarsi ad esse ponendo in essere un’adeguata attività di ravvedimento operoso o mediante il superamento delle carenze organizzative che hanno determinato il reato con l’adozione di adeguati modelli organizzativi, o ancora con la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca;
- la pubblicazione della sentenza;
- nella confisca, prevista all’art. 9 del decreto, i cui contenuti e presupposti sono precisati nel successivo articolo 19, che testualmente recita che nei confronti dell’ente è sempre disposta con la sentenza di condanna la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Al secondo comma del medesimo articolo è altresì prevista la confisca anche nella forma per equivalente.
L’art. 6 co. 5 prevede poi la confisca del profitto del reato commesso da persone che rivestono funzioni apicali anche nell’ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilità. In questo caso, la confisca ivi prevista non riveste natura sanzionatoria, ma riveste la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, tant’è che per tale confisca non può essere disposto il sequestro preventivo.
Recentemente è stata invece posta all’attenzione delle S.U. della Corte di Cassazione (sentenza 30 gennaio 2014, n. 10561) la questione inerente la confiscabilità per equivalente del profitto di reati tributari, commessi a vantaggio dell’ente da un soggetto apicale.
Le S.U. hanno avallato quell’orientamento che forniva una lettura più restrittiva della normativa in esame, affermando l’inammissibilità della confisca per equivalente nei confronti dell’ente del profitto conseguito in seguito alla commissione di un reato tributario, non essendo tale tipologia di reati prevista tra i reati-presupposto.
In particolare il ragionamento delle S.U. prende le mosse dalla distinzione tra confisca diretta e confisca per equivalente, avendo la prima oggetto il profitto del reato direttamente conseguito con la commissione del reato; la seconda invece ha ad oggetto somme di denaro o beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al profitto del reato, ed è destinata ad operare quando la confisca diretta non sia possibile. Ebbene mentre la confisca diretta è ammissibile in relazione ai reati tributari, ove il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto siano rimasti nella disponibilità dell’ente, la confisca per equivalente non è generalmente ammissibile, salvo che per l’ipotesi in cui la persona giuridica sia priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca. Trattandosi di una misura connotata da carattere eminentemente sanzionatorio, essa non può trovare applicazione oltre i casi espressamente previsti, e il diritto positivo non prevede che da tale reato possa discendere ex d.lgs. 231/2001 la responsabilità amministrativa dell’ente.
La natura giuridica della responsabilità delle persone giuridiche
Altresì dibattuta è la natura giuridica della responsabilità disciplinata dal d.lgs. 231/2001. Tre sono le tesi ad oggi emerse: tra le due prevalenti, che rispettivamente qualificano tale responsabilità come penale o come amministrativa, se ne segnala una terza che la qualifica come un terzo genere di responsabilità.
Tale questione, lungi dall’apparire meramente accademica, assume un non trascurabile rilievo applicativo, posto che l’adesione all’una o all’altra tesi reca con sé l’esigenza di verificare la tenuta costituzionale della disciplina. In secondo luogo, se si considerano le lacune presenti nella disciplina del citato decreto, occorre individuare il parametro interpretativo utilizzabile per colmare tali lacune, il quale va a sua volta individuato in base alla natura giuridica della responsabilità dell’ente.
La tesi che propugna la natura amministrativa della responsabilità dell’ente si basa sui seguenti elementi:
- Formulazione legislativa che appella come “amministrativa” tale responsabilità, ma soprattutto le relative sanzioni;
- Il rischio di illegittimità costituzionale della disciplina ove si opti per la natura penale della responsabilità dell’ente, avendo riguardo: al contrasto che essa presenterebbe con l’art. 27 Cost. ; al meccanismo d’inversione dell’onere della prova prevista in caso di commissione del reato da parte di soggetti rivestenti una funzione apicale nell’ente, che contrasterebbe con il secondo comma del medesimo art. 27 Cost.; al procedimento di archiviazione disciplinato dall’art. 58 del decreto, ritenuto contrastante con il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., posto che tale procedimento rimette la decisione in merito all’archiviazione esclusivamente agli organi inquirenti, sottraendo qualsiasi controllo al giudice penale; ed infine alla disciplina delle modifiche soggettive degli enti, contrastante con il principio di responsabilità penale personale.
- L’esclusione della natura penale della responsabilità è avvalorata anche dalla disamina del combinato disposto di cui agli articoli 5, 6 e 7 del d.lgs. : l’ente è responsabile per la commissione di reati che possono esser commessi tanto da soggetti che si trovano in posizione apicale quanto da soggetti sottoposti all’altrui direzione, purché il reato sia commesso comunque nell’interesse ovvero a vantaggio dell’ente medesimo. Ed allora, la responsabilità avrebbe natura amministrativa anche perché il tipo di rimprovero che viene mosso dal legislatore non è di aver commesso in prima persona il fatto di reato, bensì di aver adottato un’organizzazione interna inadeguata e inefficace, visto che il modello di gestione dell’ente non è stato in grado di prevenire la commissione di illeciti da parte delle persone comunque riferibili all’ente medesimo.
I sostenitori della natura penale della responsabilità, basano il proprio assunto invece sulle seguenti argomentazioni:
- La natura sostanzialmente penale della responsabilità dell’ente, i cui contenuti rintracciano i propri archetipi nel diritto penale;
- Il superamento del principio societas delinquere non potest, tanto più se si considera la coerenza della disciplina dettata dal decreto con il principio della responsabilità colpevole;
- L’accertamento della responsabilità dell’ente nel processo penale, che comporta l’irrogazione di sanzioni afflittive;
- E una serie di indici sintomatici della natura penale della responsabilità, quali il sistema di commisurazione delle pene pecuniarie, l’ammissibilità del tentativo, la rinunciabilità da parte dell’ente all’amnistia, l’applicazione dei principi di legalità e di retroattività della lex mitior.
La recente giurisprudenza (Cass. Pen. 9 maggio 2013, n. 20060) afferma che la responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale, sottaciuta volutamente per non aprire delicati conflitti con i principi sopra evidenziati posti dalla Costituzione. Nella ratio ispiratrice la disciplina del decreto , l’ente collettivo viene considerato il vero istigatore, esecutore e beneficiario del reato commesso materialmente dalla persona fisica. Tale responsabilità va tuttavia considerata come tertium genus di responsabilità, scaturente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa con principi propri della materia penale.
Ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo direttamente a carico dell’ente
Interessante problematica è quella relativa alla possibilità di ammettere la costituzione di parte civile nel processo direttamente a carico dell’ente, nell’ipotesi in cui accada che l’autore del reato presupposto non sia stato identificato ovvero risulti non imputabile. Sul punto sono emerse due soluzioni contrapposte, fortemente condizionate dall’adesione alla tesi amministrativa o penale della responsabilità dell’ente.
Secondo una prima impostazione, che mostra di aderire alla tesi della natura penale della responsabilità, la possibilità che l’articolo 34 accorda all’applicabilità delle norme di cui al codice di procedura penale conduce a ritenere che nulla osta ad una legittimazione all’azione civile diretta nei confronti dell’ente, a fortiori quando è lo stesso legislatore che afferma la responsabilità dell’ente in caso di mancata individuazione dell’autore materiale del reato.
Diversamente , si verificherebbe un vulnus di tutela in capo al soggetto danneggiato dal reato, alla cui realizzazione avrebbe contribuito l’ente con la propria colpevolezza di organizzazione.
Secondo altro indirizzo invece, che aderisce alla tesi della natura amministrativa della responsabilità dell’ente, la non ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo direttamente nei confronti dell’ente deriverebbe dal principio di autonomia della responsabilità dell’ente di cui all’articolo 8. La natura amministrativa delle sanzioni predisposte dal legislatore esplica essenzialmente una finalità preventiva. Tali sanzioni si affiancano a quelle penali previste dal Legislatore a carico delle persone fisiche che hanno concretamente operato , senza sostituirsi ad esse.
A risolvere il contrasto è intervenuta la giurisprudenza di legittimità che, ad avallo dell’indirizzo da ultimo riportato, ha affermato come le sanzioni amministrative di cui al d.lgs. 231/2001 siano indice sintomatico di un’autonoma responsabilità dell’ente sussidiaria ed indiretta. La parte civile è danneggiata dalla condotta dell’autore del reato-presupposto e non direttamente dalla condotta negligente imputabile all’ente, che comunque l’ordinamento previene in maniera efficace per il tramite della disciplina di cui al d.lgs. 231 del 2001. Di qui l’inammissibilità della sua costituzione in giudizio direttamente nei confronti dell’ente (Cass. Pen. 22 gennaio 2011, n. 2251).
Il soggetto penalmente responsabile nelle organizzazioni complesse. Delega di funzioni
La complessità strutturale degli enti e delle imprese rende oggigiorno problematica l’individuazione dei soggetti cui attribuire la responsabilità per l’inosservanza del dovere di adottare tutte le misure volte a prevedere, prevenire ed evitare il verificarsi di eventi lesivi sia nei confronti dei dipendenti dell’impresa, che dei terzi, in ragione della natura dell’attività in concreto esercitata e dei rischi ad essa connessi.
Di consueto, l’inosservanza di tali obblighi viene addebitata ai soggetti in posizioni apicali all’interno dell’organizzazione. Tuttavia, di consueto la molteplicità delle attività da svolgere e l’estrema varietà degli adempimenti connessi alla titolarità di una posizione di vertice, inducono tali soggetti ad avvalersi di complesse organizzazioni. Ne deriva il problema dell’ammissibilità di una delega di funzioni, con cui il titolare di una posizione verticistica assegni ad altri soggetti compiti su di lui fisiologicamente gravanti. In particolare si discute se una delega di funzioni possa sortire effetto sul meccanismo di individuazione delle responsabilità penali, comportando una traslazione, o quantomeno un’estensione delle stesse in capo al soggetto delegato.
L’individuazione del soggetto titolare della posizione di garanzia, su cui grava l’obbligo posto dalla disciplina dettata in materia di sicurezza sul lavoro, assume particolare rilievo agli effetti dell’art. 40, comma 2 c.p.
A tal fine, secondo l’orientamento oggi prevalente che ha avallato la tesi c.d. organica, ai fini di tale individuazione occorre tenere conto tanto della qualifica formalmente rivestita, quanto della concreta distribuzione delle funzioni all’interno dell’ente. Essa ha altresì ricevuto l’avallo del legislatore che all’art. 2, comma 2, lett. B) d.lgs. 81/2008 (T.U. in materia di sicurezza sul lavoro) prevede che è datore di lavoro, il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o di una sua unità produttiva, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Tale disposizione pertanto pur non ripudiando il concetto formale di datore di lavoro, ne autorizza il superamento a favore di un concetto sostanziale.
Particolarmente rigorosa sul punto la giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che il datore di lavoro non possa mai andare esente da responsabilità per eventi dannosi che siano occorsi ai lavoratori, laddove sia dimostrato che essi dipendano da violazioni di norme antinfortunistiche. Tali obblighi non sono infatti delegabili.
Con riferimento all’individuazione del soggetto responsabile, è costante affermazione quella secondo cui nell’ambito di organizzazione complesse, la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, ma richiede di considerare l’organizzazione dell’ente e l’individuazione delle figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura.
Nella specie, la delega di funzioni costituisce una attribuzione derivata di posizione di garanzia; essa è fonte artificiale di responsabilità, poiché costruita per espressa ed autonoma decisione dell’uomo.
A fronte di chi ritiene inammissibile la delega di funzioni per incompatibilità con il principio di legalità, non ammettendo che il titolare degli obblighi, individuato dalla legge, li dismetta ad altro soggetto discrezionalmente scelto, è oggi prevalente l’opposto indirizzo, secondo cui la ripartizione accurata delle funzioni tra i soggetti dell’organizzazione complessa costituisce uno dei modi con i quali il responsabile può adempiere ai propri obblighi di garanzia. Nascerebbero così delle posizioni derivate di garanzia in capo ai delegati, senza peraltro che vengano meno gli obblighi originariamente posti in caso al vertice dell’organizzazione. Tali obblighi si trasformerebbero tuttavia in doveri di vigilanza e di intervento, che riguardano il corretto svolgimento delle funzioni da parte del delegato.
Ai fini di una valida ed efficacia delega, occorre tuttavia aver riguardo a una serie di criteri. In primo luogo assume rilevanza la dimensione dell’azienda, che se apprezzabile tende a giustificare e a rendere legittimo il ricorso alla delega, la quale – come detto – non fa venire meno eventuali responsabilità per colpa in eligendo o in vigilando del soggetto posto al vertice dell’organizzazione.
Occorre poi che la delega abbia le caratteristiche della certezza e che essa sia conosciuta nel suo preciso contenuto dal delegato. Non è invece unanimemente condiviso l’assunto secondo cui essa debba rivestire necessariamente la forma scritta.
Si richiede, ancora, una rigorosa indagine circa l’effettività delle delega, in quanto non può esservi effetto liberatorio per il datore di lavoro senza attribuzione reale di poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa pertinenti alla funzione delegata. La delega ha senso se il delegante trasferisce proprie incombenze ad altri, cui attribuisce effettivamente i pertinenti poteri.
Anche in presenza di una delega valida ed effettiva, come già accennato residuano comunque alcuni doveri indelegabili, di cui ove fosse accertata la violazione da parte del titolare, ogni eventuale delega sarà priva di qualsivoglia rilievo scusante.