La revisione del processo penale (artt. 629 e ss. c.p.p.)

revisione processo

Il titolo IV del libro IX (“Impugnazioni”) è dedicato alla disciplina della Revisione del processo. Esso si apre con l’art. 629 c.p.p., a tenore del quale è ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta.

Trattasi di un mezzo d’impugnazione straordinario, essendo esperibile esclusivamente nei confronti di sentenze (o decreti penali) di condanna – non anche di proscioglimento o di non luogo a procedere – divenute irrevocabili.

Ai sensi dell’art. 631 c.p.p. – rubr. Condizioni di ammissibilità -, ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione occorre che essa si fondi sulla prospettazione di elementi tali da dar luogo, se accertati, al proscioglimento ai sensi degli artt. 529, 530 o 531 c.p.p.

Il mezzo della revisione può essere esperito in ogni tempo, nei soli casi tassativamente determinati a norma del successivo art. 630 c.p.p., rubr. Casi di revisione, ovvero:

a) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale;

b) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479;

c) se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631;

d) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato.

Inconciliabilità tra giudicati.

L’ipotesi di cui alla lett. a) viene comunemente indicata come classico esempio di conflitto teorico di giudicati: tale inconciliabilità non deve essere intesa in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui si fondano i diversi provvedimenti.

Ciò che è emendabile in sede di revisione è, infatti, l’errore di fatto e non la valutazione del fatto, sicché non è ammissibile l’istanza di revisione che fa perno sulla circostanza che lo stesso quadro probatorio sia stato diversamente utilizzato per assolvere un imputato e condannare un concorrente nello stesso reato in due diversi procedimenti.

In sintesi, le situazioni di incompatibilità tra giudicati non possono essere preventivamente tipicizzate, ma, di certo, presuppongono un’oggettiva incompatibilità tra i fatti su cui si fondano i provvedimenti posti a raffronto.

Revoca della sentenza civile o amministrativa.

L’ipotesi contemplata nella lett. b) ha riguardo alle ipotesi in cui interviene la revoca della sentenza civile o amministrativa che abbia deciso una questione pregiudiziale di cui all’art. 3, vale a dire una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza, o una delle questioni di cui all’art. 479, vale a dire una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, sulla base della quale il giudice penale abbia ritenuto – nella sentenza o nel decreto penale divenuti irrevocabili – la sussistenza del reato a carico del condannato.

 

Le nuove prove, scoperte o sopravvenute dopo il giudicato.

La lett. c) prevede, invece, il caso di revisione di maggior applicazione, che ha riguardo alle ipotesi in cui sopravvengono o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto ai sensi dell’art. 631 c.p.p.

Non pochi contrasti hanno riguardo il significato da attribuire al concetto di “prove nuove“; ci si è, cioè, domandati se in esso debbano farsi rientrare solo le prove noviter repertae (cioè quelle scoperte successivamente al passaggio in giudicato della decisione di cui si intende chiedere la revisione) o anche quelle noviter productae (cioè quelle preesistenti, ma mai portate all’attenzione dell’organo che ha emesso la decisione di sui si intende chiedere la revisione) e, poi, se quest’ultima categoria comprenda solo le prove mai acquisite prima o anche quelle che, seppur acquisite, non sono mai state valutate dal giudice.

Nel silenzio del legislatore la dottrina maggioritaria, da sempre, si è schierata a favore di una interpretazione massimamente estensiva.

Del tutto oscillante, viceversa, è stata la posizione dei giudici di legittimità. Un primo intervento delle Sezioni unite della Suprema Corte aveva escluso la possibilità di ricorrere all’istituto della revisione sulla base di prove già acquisite ma non valutate dal giudice prima del giudicato (S.U., 11 maggio 1993 ). Nondimeno, anche dopo il predetto autorevole intervento, si è continuato a registrare un contrasto giurisprudenziale tra decisioni adesive al principio di diritto affermato dalle Sezioni unite e decisioni che, invece, continuavano ad optare per una chiave di lettura massimamente estensiva del concetto di “prova nuova“.

Contrasto che ha condotto a una seconda pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, con cui, abbandonando la posizione assunta in precedenza, veniva affermano il principio di diritto per il quale, ai fini della revisione, per prove nuove, debbono intendersi, non solo quelle sopravvenute o scoperte successivamente alla sentenza definitiva di condanna, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio e quelle che, seppur acquisite, non sono state valutate, neanche implicitamente, sempre che non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice (S.U., 26 settembre 2001).

Invero, nemmeno tale secondo intervento delle Sezioni unite è bastato ad uniformare le successive decisioni emesse dalle varie sezioni della Suprema Corte. Segnatamente, le pronunce che disattendono l’autorevole dictum si basano sul rilievo che l’eccessivo ampliamento del concetto di prova nuova finisca non solo per vulnerare le esigenze di certezza sottese al giudicato, ma anche per stravolgere la natura della revisione che, da mezzo di impugnazione straordinario, diverrebbe una ipotesi, non tipizzata, di impugnazione tardiva.

Attesa la costante oscillazione mostrata dai giudici di legittimità sul punto, pare auspicabile, nel prossimo futuro, una nuova rimessione della questione alle Sezioni Unite, attesa – altresì – la modifica apportata dalla L. 20.2.2006, n. 46, all’art. 606, comma 1, lett. e), che consente il ricorso per Cassazione anche per le ipotesi di omessa valutazione di una prova decisiva da parte del giudice di merito.

Guardando sommariamente  alla casistica giurisprudenziale, si è ritenuto che non può mai costituire “nuova prova” il giudizio di inattendibilità di un testimone, reso in un procedimento diverso da quello in cui è intervenuta la sentenza irrevocabile di condanna; parimenti, con riferimento alla sopravvenuta prova dell’inattendibilità di un collaboratore di giustizia, è stato precisato che essa, da sola, non può essere condizione sufficiente alla instaurazione di un giudizio di revisione, essendo piuttosto necessaria la contestazione in ordine all’esistenza di un fatto storico nel quale è stato rinvenuto il riscontro esterno alle dichiarazioni del medesimo collaboratore (Cass. n. 11261/2009).

Ancora, sempre con riferimento alla prova dichiarativa, si è specificato che, affinché una deposizione testimoniale possa considerarsi “prova nuova“, occorre che essa sia idonea a smentire, ab imis, l’impianto accusatorio, dovendosi, altresì, porre in rilievo le ragioni della sua sopravvenienza dopo il giudicato.

Possono, viceversa, costituire “prova nuova“le valutazioni contenute in una consulenza tecnica, eseguita dopo la condanna definitiva, ma solo quando si fondino su elementi diversi da quelli presi in considerazione dal precedente giudice (C., Sez. III, 14 settembre 1993, Russo). Può costituire novum anche una diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi già noti ai periti e al giudice, quando essa consegua all’applicazione di nuove metodologie, dal momento che la novità di queste ultime e, correlativamente, dei principi tecnico-scientifici applicati, può condurre anche alla conoscenza di veri e propri fatti nuovi.

Falsità in atti o altro reato, accertati successivamente.

Ai sensi della lettera d), la revisione è consentita anche nell’ipotesi in cui la condanna sia stata emessa in conseguenza di falsità in atti o in giudizio, ovvero di un altro fatto previsto dalla legge come reato.

L’uso della formula «altro fatto previsto dalla legge come reato», invero, se da un lato rende potenzialmente diffuso l’ambito di applicazione della disposizione, per altro lato invece, rende superfluo il richiamo specifico alla falsità in atti o in giudizio.

In giurisprudenza si è precisato, poi, che l’accertamento della falsità deve essere cristallizzato in una sentenza divenuta irrevocabile (C., Sez. V, 3 marzo 1998, Angelico).

Il caso non scritto di ottemperanza alle decisioni della Corte E.D.U.

La Corte Costituzionale, con la sentenza additiva n. 113 del 2011 ha dichiarato – com’è noto – l’illegittimità costituzionale dell’art. 630, per violazione dell’art. 117, 1° co., Cost., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’istituto della revisione ha così assunto un’ulteriore funzione: quella di consentire, ogni volta che intervenga una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo, la riapertura del processo stesso, onde garantire all’interessato una effettiva restitutio in integrum, ponendolo, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se non vi fosse stata l’inosservanza della Convenzione.

I soggetti legittimati a presentare la richiesta di revisione. Forma della richiesta.

A norma dell’art. 632 c.p.p., possono chiedere la revisione: il condannato, anche se latitante o evaso; un suo prossimo congiunto o il suo tutore; l’erede o il prossimo congiunto del condannato morto; il Procuratore generale presso la Corte di appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza di condanna o di applicazione di pena concordata o è stato emesso il decreto penale di condanna da sottoporre a revisione.

Quanto al riconoscimento di un’autonoma legittimazione in capo al Procuratore generale si giustifica, appare fino troppo evidente che la ragione risieda nella natura pubblica del fine di giustizia sostanziale cui mira la revisione.

Tra i soggetti legittimati a presentare la richiesta di revisione non compare, invece, il difensore. Ciò parrebbe potersi giustificare in ragione del fatto che l’avvenuto passaggio in giudicato del provvedimento del quale si chiede la revisione ha comportato, ex lege, l’estinzione del rapporto fiduciario, precedentemente intercorrente, tra l’imputato ed il suo difensore.

Ai sensi del successivo art. 633, la richiesta di revisione è proposta personalmente o per mezzo di un procuratore speciale. Essa deve essere presentata, unitamente a eventuali atti e documenti, nella cancelleria della Corte di appello individuata secondo i criteri di cui all’articolo 11.

Non trova applicazione, invece, l’art. 582, co. 2 , c.p.p. che consente alle parti private e ai difensori di depositare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano.

La richiesta di revisione deve, inoltre, contenere l’indicazione specifica delle ragioni e delle prove che la giustificano, al fine consentire alla Corte di appello la delibazione di ammissibilità di cui all’art. 634 c.p.p.

Per determinati atti, poi, sussiste un vero e proprio obbligo di allegazione: quando la richiesta di revisione riguarda i casi di cui alle lett. a) e b), ad essa devono essere allegate le copie autentiche delle sentenze e dei decreti penali di condanna, di cui si assume l’inconciliabilità con il provvedimento oggetto di impugnazione straordinaria.

Quando, invece, la revisione è proposta per il caso di cui alla lett. d), alla richiesta deve essere allegata copia autentica della sentenza irrevocabile di condanna  per il reato di falsità in atti – o in giudizio o per altro fatto previsto dalla legge come reato -, a fondamento dei quali si ritiene essere stato emesso il provvedimento oggetto di revisione.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.