Le misure di sicurezza. Ipotesi di confisca e rispetto dell’art. 7 CEDU. Pericolosità sociale e delinquenti abituali, professionali o per tendenza

Ex Manicomio Mombello - photo by Elena Gatti shared on flickr.com
Ex Manicomio Mombello – photo by Elena Gatti shared on flickr.com

Il legislatore del 1930 ha introdotto nel nostro codice penale il sistema del doppio binario, affiancando alla sanzione penale tradizionale la misura di sicurezza.

Le misure di sicurezza si distinguono dalle pene innanzitutto per le diversa funzione perseguita. La pena assolve infatti funzioni di retribuzione e prevenzione generale, mentre la misura di sicurezza persegue la funzione di prevenzione speciale, volta alla neutralizzazione della pericolosità sociale del sottoposto. La misura di sicurezza, inoltre, scaturisce da un giudizio di pericolosità e non di responsabilità penale.

Mentre poi la pena è determinata in proporzione alla gravità del fatto, la durata della misura di sicurezza è indeterminata, perché rapportata al giudizio di pericolosità, sicché cessa solo al venire meno di quest’ultima.

Ancora, a differenza della pena che ha come destinatari gli imputabili e i semimputabili, le misure di sicurezza si applicano anche ai non imputabili.

Il principio di irretroattività sfavorevole ex art. 25 Cost. e le misure di sicurezza.

Quanto ai principi costituzionali rilevanti in materia di misure di sicurezza, va annoverato il principio di legalità, ex art. 25 co. 3 Cost. Tale norma non sancisce espressamente, invece, il principio di irretroattività per le misure di sicurezza. Si ritiene infatti che tale principio viene implicitamente rispettato nel senso in cui non può applicarsi una misura di sicurezza per la commissione di un fatto che non costituiva reato al tempo della sua commissione. È invece ammessa la retroazione sfavorevole della legge che, sopravvenuta alla commissione di un fatto già previsto come reato, introduca per la prima volta una misura di sicurezza o modifichi la disciplina previgente prevedendo che debba farsi luogo all’applicazione di una misura di sicurezza più grave di quella prevista al tempo della commissione del fatto criminoso.

Tale interpretazione viene desunta da una serie di argomentazioni: a) la differente formulazione del comma 3 dell’art. 25 Cost. rispetto al precedente comma 2;  b) il tenore letterale dell’art. 200 c.p.; c) nonché la diversa funzione perseguita dalle misure di sicurezza che è rivolta al futuro, e non già al passato come le pene, in quanto volta a neutralizzare il rischio della nuova commissione di reati da parte del reo.

Non va tuttavia negato che vi sia una parte minoritaria della dottrina che in virtù di una lettura estensiva dell’art. 2 c.p. ritiene che la irretroattività sfavorevole vada applicata anche alle misure di sicurezza.

Sul punto particolare attenzione merita la questione relativa al regime intertemporale cui sono assoggettate le confische.

La confisca di cui all’art. 240 c.p. costituisce una tipica misura di sicurezza patrimoniale che, avendo ad oggetto cose legate a filo doppio al reato (di cui costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo), esplica la funzione tipica delle misure di sicurezza, che è appunto quella di neutralizzazione della pericolosità sociale. Invero, i beni su cui essa incide tengono viva nell’autore l’idea del reato, potendo la loro persistente disponibilità costituire un incentivo alla reiterazione del crimine. Ecco che allora tale tipologia di confisca, lungi dal costituire una misura sanzionatoria, costituisce una vera e propria misura di sicurezza, tale da giustificare l’applicazione dell’art. 200 c.p. e il regime di retroazione sfavorevole.

Sennonché il tema si è non poco complicato negli ultimi decenni, in cui si sono ricondotte all’interno dell’istituto nominalistico della confisca varie misure ablatorie spesso destinate ad incidere su beni non avvinti al reato da alcun legame (si pensi alla confisca per equivalente) e che pertanto non presentano la funzione propria delle misure di sicurezza. Si tratterebbe di misure quindi più omogenee alla pena e alla sua funzione repressiva.

Ci si è chiesti allora se anche per la disciplina dettata riguardo tali misure debba operare il regime di retroazione sfavorevole di cui all’art. 200 c.p., ovvero se la loro connotazione sanzionatoria debba comportare il rigoroso rispetto del principio di irretroattività, quanto meno al fine di assicurare il rispetto dell’obbligo internazionale derivante dall’art. 7 CEDU.

Dall’interpretazione della norma testé citata infatti, la Corte di Strasburgo è giunta ad elaborare la c.d. concezione autonomista del reato e delle pene, secondo cui le nozioni di pena, accusa penale e sanzioni – ai fini del concreto rispetto della CEDU – devono derivare da un’interpretazione autonoma di tali istituti, che vada al di là delle formali definizioni date dal diritto interno e che guardi piuttosto alla loro sostanza concreta.  Da ciò discende l’applicazione delle norme CEDU anche a misure sanzionatorie o a violazioni che non sono considerate penali nell’ordinamento interno, ma che ad esse tuttavia devono essere equiparate secondo criteri di valutazione sostanziale, quali la natura dell’illecito e la gravità/afflittività della sanzione.

Si è così posto , nel nostro ordinamento, il problema della compatibilità con la CEDU della disciplina dettata per alcune ipotesi di confisca, non considerate pene in senso stresso ma tuttavia ad esse equiparabili ai sensi dell’art. 7 CEDU e quindi anch’esse coperte dal principio di legalità e dai suoi corollari. E così, a titolo esemplificativo, la confisca urbanistica è stata infine ritenuta non applicabile ai soggetti assolti perché il fatto non costituisce reato; o la confisca per equivalente nei reati tributari o del codice della strada è stata ritenuta non applicabile retroattivamente proprio perché considerate come pene c.d. camuffate e assoggettate al regime successorio delle pene e non a quello delle misure di sicurezza.

 

Pericolosità sociale del reo.

Ai sensi dell’art. 202 co. 1 c.p. “le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato”.

Pertanto al fine di potere applicare una misura di sicurezza, occorre che sia stato commesso un reato. Tuttavia ai sensi del comma 2 possono applicarsi eccezionalmente anche nelle ipotesi c.d. di quasi reato: reato impossibile o accordo o istigazione non seguiti dalla commissione del reato.

L’imprescindibilità del presupposto oggettivo di commissione del reato, ha portato la dottrina a definire tali misure come misure di prevenzione post delictum, per distinguerle dalle misure di prevenzione ante o praeter delictum, in cui si prescinde dalla commissione di un fatto di reato. Entrambe le misure ora citate hanno tuttavia in comune il presupposto soggettivo, rappresentato dall’essere il soggetto qualificato come socialmente pericoloso.

Ai sensi dell’art. 203, è socialmente pericolosa la persona quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati, sulla base dei criteri elencati all’art. 133 c.p.

Si tratta di un giudizio prognostico. Posto che gli elementi di cui all’art. 133 sono generici ed indeterminati, tali dunque da non consentire un giudizio dotato del carattere di scientificità, il metodo di accertamento più diffuso nella prassi è il metodo c.d. intuitivo, non scevro certamente da rischi di arbitrario soggettivismo.

L’impianto originario del codice prevedeva alcune ipotesi di pericolosità presunta dalla legge, in presenza delle quali vi era l’obbligo del giudice di far luogo all’applicazione di una misura di sicurezza. Tale impianto , fortemente criticato con numerose sentenze dalla Corte Costituzionale, è stato espulso dal nostro sistema mediante la L. 663/1986. Per cui ad oggi tutte le misure di sicurezza vanno ordinate solo dopo che sia stata in concreto accertata la pericolosità sociale del reo.

Delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Il codice penale prevede tre tipi legali di delinquenti pericolosi: il delinquente abituale, professionale e per tendenza. Tali tipi legali corrispondono a soggetti imputabili, giudicati pericolosi, e per i quali in aggiunta alla pena va applicata una misura di sicurezza.

Il delinquente abituale è colui che si dedica a una ripetuta attività criminosa, così dimostrando una particolare attitudine al reato. Tale tipologia di deliquente è disciplinata dagli artt. 102-104 c.p., che elencano le condizioni al ricorrere delle quali il giudice, una volta accertata in concreto la pericolosità sociale dell’autore, procede alla dichiarazione di abitualità.

Il delinquente professionale è un particolare tipo di delinquente abituale. Secondo l’art. 105 è colui che si trova nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, qualora il giudice, avuto riguardo alla natura dei reati commessi, alla condotta e al genere di vita del colpevole e ad altre circostanze, ritenga che il reo viva abitualmente anche in parte dei proventi del reato.

Il delinquente per tendenza, ex art. 108, è invece colui che, sebbene non delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo contro l’incolumità personale, il quale per sé e unitamente ad altre circostanze di cui all’art. 133, riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole.

Venendo agli effetti del riconoscimento della sussistenza di uno dei tre tipi legali di soggetti pericolosi, essi comportano:

  • Un aumento di pena in virtù della recidiva o della capacità a delinquere particolarmente elevata;
  • L’applicazione di una misura di sicurezza;
  • Interdizione perpetua dai pubblici uffici;
  • Inapplicabilità dell’amnistia o indulto, salvo che il decreto disponga diversamente;
  • Divieto di sospensione condizionale e del perdono giudiziale per i minori;
  • Esclusione della prescrizione della pena e raddoppio di quello del reato;
  • Raddoppio del termine utile a ottenere la riabilitazione (che ove ottenuta estingue anche gli effetti delle dichiarazioni di abitualità/professionalità nel reato o di tendenza a delinquere).

Natura giuridica e tipologia di misure applicabili.

Quanto alla natura giuridica, le misure di sicurezza in origine erano dei provvedimenti di natura amministrativa. Tuttavia ad oggi esse sono state giurisdizionalizzate e vengono applicate esattamente allo stesso modo delle pene.

Le misure di sicurezza si distinguono in personali e patrimoniali. Quelle personali a loro si distinguono in detentive e non detentive.

Sono misure di sicurezza personali detentive:

  • l’assegnazione ad una colonia agricola o una casa di lavoro, destinata ai soggetti imputabili corrispondenti a una delle sopra elencate tipologie legali (art. 216);
  • l’assegnazione ad una casa di cura e custodia ( per i semimputabili);
  • il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per i non imputabili (tali strutture a far data dal 31 marzo 2015 sono state smantellate, essendo stato previsto dall’art. 3 bis D.L. 211/2011 il trasferimento della sanità penitenziaria al S.S.N);
  • il ricovero in un riformatorio giudiziario eseguito mediante il collocamento in comunità per i minori.

Sono misure non detentive:

  • la libertà vigilata;
  • il divieto di soggiorno;
  • l’espulsione dello straniero dallo Stato.

Sono misure di sicurezza patrimoniali:

  1. La cauzione di buona condotta, 237 c.p.
  2. La confisca, 240 c.p.

La confisca consiste nell’espropriazione delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, ovvero ne rappresentano il prodotto, il profitto o il prezzo. Per prodotto devono intendersi le cose materiali che traggono origine dal reato; per profitto il guadagno o il vantaggio economico perseguito con l’illecito; per prezzo la somma di denaro o qualsiasi altra utilità promessa come corrispettivo del reato. Un carattere onnicomprensivo tende invece a darsi alla locuzione “provento” del reato.

La confisca tende a prevenire la commissione di nuovi reati, mediante l’espropriazione di cose pertinenziali al reato o alla sua esecuzione e che, pertanto, mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato. Essa prescinde dalla pericolosità sociale dell’autore, presupposto di applicazione dell’istituto è infatti la pericolosità della cosa.

L’art. 240 c.p. distingue due forme di confisca:

  1. facoltativa: possono essere confiscate le cose che servirono o furono destinate a commettere reato e le cose che ne costituiscono il prodotto o profitto.
  2. obbligatoria: nelle ipotesi indicate dal comma 3, ovvero delle cose che costituiscono il prezzo e delle cose la cui fabbricazione, uso, porto , detenzione o alienazione costituisce reato (anche se non è stata pronunciata condanna).

La pericolosità della cosa è presunta, essendo considerata dal legislatore in re ipsa.

La portata applicativa della confisca si è ampliata nel corso degli anni in virtù di numerosi interventi legislativi che l’hanno introdotta come obbligatoria per talune fattispecie di reato: quale associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, riciclaggio, usura, contrabbando, associazione terroristica, responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, reati dei pubblici ufficiali contro la p.a. Si segnala che da ultimo la L. 12/2012 ha novellato l’art. 240 prevedendo la confisca obbligatoria dei beni utilizzati per la commissione dei reati informatici.

Il codice penale prevede, per alcune tipologie di reati, anche un tipo di confisca per equivalente, che permette di espropriare somme di denaro, beni o altre utilità in misura proporzionale al prezzo o al profitto del reato, in assenza di qualsiasi prova di un rapporto di pertinenzialità tra i beni appresi ed il fatto illecito. Il presupposto della confisca per equivalente consiste appunto nella mancata individuazione ed apprensione dei beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato. Quanto alla natura della confisca per equivalente, se ne è affermata la natura sanzionatoria, esimendo tale misura dallo stabilire quel rapporto di pertinenzialità col reato che caratterizza invece la confisca di cui all’art. 240 c.p. Pertanto ad essa non dovrebbe applicarsi l’art. 200 c.p.

Applicazione.

Le misure di sicurezza di regola sono ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o di proscioglimento. Posso essere disposte anche con provvedimento successivo dal magistrato di sorveglianza.

Quanto alla loro applicazione, sono applicate dal magistrato di sorveglianza previo accertamento della pericolosità sociale della persona. Alla scadenza del termine della misura, il magistrato procede a una nuova valutazione sulla pericolosità. In caso negativo, la misura cessa, in caso positivo si stabilisce un nuovo termine all’esito del quale avrà luogo un nuovo giudizio. Questo può essere svolto anche prima della scadenza del termine della misura, se vi sono ragioni per ritenere che sia cessata la pericolosità.

Quanto al momento dell’esecuzione, esse vengono eseguite dopo la pena se sono state ordinate congiuntamente ad essa, altrimenti dopo che è divenuta irrevocabile la sentenza con cui sono state ordinate dal giudice.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.