Maltrattamenti in famiglia: elementi costitutivi, configurabilità

L’art. 572 c.p. disciplina il delitto diffusamente indicato come “maltrattamenti in famiglia“. Invero tale reato, prima rubricato come “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, è stato oggetto di  modifica ad opera della L. 1 ottobre 2012, n. 172 (in esecuzione della c.d. Convenzione di Lanzarote), sicché la rubrica oggi recita “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, al fine di equiparare la nozione istituzionale di famiglia ad altre forme di convivenza.

Il concetto di persona della famiglia veniva infatti tradizionalmente circoscritto ai coniugi, consangunei, affini, adottati e adottanti, propendendosi invece ad oggi per un’interpretazione estensiva in cui rientrano  i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela, nonchè i domestici, a patto che vi sia convivenza. Si tratta di un requisito importante che comporta quindi l’ammissibilità della fattispecie in esame anche nei confronti del convivente more uxorio.

Con la stessa riforma, si è, inoltre, proceduto a un considerevole aggravamento del trattamento sanzionatorio, con l’introduzione di una nuova aggravante al secondo comma, nei casi in cui il fatto sia commesso in danno di minori degli anni 14; la quale è stata – a sua volta – oggetto di una successiva modifica ad opera del D.L. 93/2013, che ha innalzato l’età della vittima (minore di anni 18), abrogando il citato comma 2 ed introducendo una nuova aggravante comune nell’art. 61 n. 11-quinquies c.p.

La lettera della norma punisce con la reclusione da 2 a 6 anni “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente” (n.d.r. art. 571 – Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. Applicandosi a differenti contesti, tale disposizione appare diversamente diretta a tutelare la famiglia, quanto la dignità personale che la tollerabilità della convivenza.

L’elemento oggettivo della fattispecie attiene alla ripetizione prolungata nel tempo di una pluralità di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà e del decoro della vittima, mediante percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni, ma anche atti di disprezzo e offesa alla dignità della persona offesa (c.d. reato necessariamente abituale).

Affinché si possa procedere per maltrattamenti in famiglia, non è pertanto sufficiente il singolo episodio violento che trae origine da situazioni contingenti che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare; fermo restando che il singolo episodio, ove illecito, potrà eventualmente integrare altro e diverso reato (es. violenza privata, minacce, lesioni, ingiurie, etc.).

Anche una serie di litigi tra marito e moglie, degenerati di tanto in tanto in violenze fisiche, non è sufficiente a far scattare i “maltrattamenti in famiglia”, reato che, invece, richiede un quadro di sopraffazione sistematica e continua. 

Ne consegue anche che non sia configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia se, nonostante l’atteggiamento prevaricatore del marito nei confronti della moglie, questa reagisce alle intemperanze dell’uomo, non assumendo, quindi, un atteggiamento di passiva soggezione nei suoi confronti (cfr. Cass. sez. VI, sentenza 5258/2016).

Per la configurabilità del reato non è, invece, presupposto essenziale la convivenza dell’agente con la vittima, quanto piuttosto la sussistenza di uno stabile vincolo affettivo ed umano che va, per l’appunto, protetto contro fenomeni di sopraffazione.

In particolare, si è ritenuto  configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche a seguito della separazione dei coniugi (o della cessazione della convivenza more uxorio), atteso che anche se i coniugi sono separati, il vincolo coniugale non è sciolto e continuano a sussistere i doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale (v. sul punto Cass. sez. II, sentenza n. 39331/2016, anche in ordine alla specialità tra il reato di maltrattamenti in famiglia e il reato di atti persecutori, c.d. stalking.).

Si è ritenuto, altresì, configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia in presenza di una relazione sentimentale che crea vincoli affettivi, a prescindere dal vincolo matrimoniale e dalla coabitazione (Cass. sentenza n. 491/2017, secondo cui “l’art. 572 c.p. è applicabile non solo ai nuclei fondati sul matrimonio ma a qualunque relazione sentimentale che per la consuetudine dei rapporti creati implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale”).

È richiesto, a livello soggettivo, il dolo generico, definito dalla giurisprudenza graduale, posto che esso costituisce il dato unificante le singole condotte reiterate.

Il reato in parola non è scriminato dall’eventuale diversità culturale dell’agente straniero (v. reati culturalmente orientati), posto che  il rilievo penale della diversità culturale non può spingersi fino all’introduzione e all’accettazione nella società di consuetudini e costumi che si pongono in violazione dei diritti inviolabili della persona umana.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia si perfeziona allorché si realizza un minimo di  condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità e ciò anche nel caso in cui la serie reiterativa venga interrotta da una sentenza di condanna, o nel caso in cui tra una serie e l’altra, di atti costituenti i maltrattamenti, intercorra un intervallo di tempo sufficiente per ritenerle distinte; si consuma col semplice porre in essere l’azione o l’omissione che rappresenta il primo fatto vessatorio, e perdura fino a che i maltrattamenti non siano cessati.

Il D.L. n. 93/2013 (convertito con L. 119/2013) ha stabilito, inoltre, l’obbligo per le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia dei reati suddetti di fornire alla vittima stessa tutte le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti sul territorio e, in particolare, nella zona di residenza della vittima, e di mettere poi in contatto la vittima con i centri antiviolenza, qualora questa ne faccia espressamente richiesta.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.