Mamme in carcere: il rapporto tra genitori detenuti e figli

Il tema del rapporto tra genitori detenuti e figli, in particolare tra le mamme in carcere ed i figli, porta a entrare in contatto con una pluralità di diritti e principi di rilievo costituzionale. Ci si riferisce al diritto della persona, benché in carcere, a sviluppare la propria personalità sia come singolo che nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.); al diritto della persona a non essere lesa nella sua dignità e al principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3); al dovere dei genitori di educare i figli ed allo speculare diritto dei figli minori a essere accuditi dai genitori (art. 30 comma 1, Cost.);  al diritto dei bambini a vivere, con la madre (i genitori), in un contesto esterno a quello carcerario e idoneo a garantire la sua integrità psico-fisica e la sua salute (art. 32 Cost.); al dovere dello Stato di proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari (art. 31 Cost.).

In particolare, nel rapporto madre detenuta-figlio si coglie, emblematicamente, la cd. portata bilaterale della pena, secondo cui gli effetti dell’esecuzione penale non si riversano esclusivamente sul condannato, ma colpiscono indirettamente anche i familiari, vittime dimenticate, la cui sfera affettiva inevitabilmente si comprime per effetto della sentenza di condanna o dell’esecuzione di una misura cautelare.

Dal punto di vista normativo, a livello ordinario, il R.D. 18 giugno 1931, n. 787, recante Regolamento degli Istituti di prevenzione e pena, in vigore fino al 1975, prevedeva all’art. 58 il divieto ai minori degli anni 18 di visitare gli stabilimenti. Tuttavia, all’art. 43 esso disponeva che le madri con bambini di età inferiore ai 2 anni potessero essere autorizzate a tenere con sé i figli dal direttore dell’istituto.

Successivamente, con la riforma dell’ordinamento penitenziario (Legge 354/1975), all’art. 11 viene consentito alle madri detenute o internate, di tenere presso di sé i figli fino all’età di 3 anni, prevedendo l’inserimento negli istituti penitenziari di specialisti con il compito di tutelare la salute psico-fisica dei bambini e delle stesse madri, oltre che l’edificazione di asili-nido deputati alla cura e all’assistenza del minore.

Il nostro ordinamento è andato progressivamente ispirandosi ad un bilanciamento sempre più favorevole alle esigenze di sviluppo dei minori, soprattutto nei loro primi mesi di vita. Con la legge cd. “Gozzini” n. 663/1986, si è introdotto, per determinate categorie di soggetti e per condanne o residui di breve durata, la detenzione domiciliare, che, quale modalità esecutiva della pena, viene estesa anche alle donne incinte e alle detenute con figli di età inferiore ai 3 anni, con loro conviventi, come alternativa al differimento della pena.

Con la legge cd. “Simeone” n. 165/1998, la possibilità di fruizione della detenzione domiciliare viene ulteriormente ampliata, in relazione sia alla durata della condanna (da 2 a 4 anni) che all’età dei minori, arrivata alla soglia dei 10 anni. Nel frattempo, nel 1990 (con la sentenza n. 215), la Corte costituzionale ha esteso anche ai padri la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare, alle stesse condizioni della madre, nel caso in cui questa sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole.

Solo nel 2001, con la legge n. 40 (c.d. Legge “Finocchiaro”), si ha un intervento specifico per genitori detenuti. La legge cd. Finocchiaro prevede un accesso “agevolato” delle mamme con minori a carico alle misure cautelari alternative. La legge non ha però risolto il problema per le detenute che non possono accedere agli arresti domiciliari perché senza fissa dimora. Per loro l’unica alternativa al carcere sarebbe il trasferimento negli istituti a custodia attenuata previsti dalla nuova normativa (i c.d. ICAM).

Intento della legge è evitare che a detenute-madri si aggiungano “detenuti-bambini”: la legge rende infatti più semplice l’applicazione della detenzione domiciliare, avendo introdotto nell’Ordinamento Penitenziario all’art. 47-quinquies la c.d. “detenzione speciale”, che permette l’ammissione alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore ai 10 anni ( anche ai padri detenuti, nei casi in cui la madre sia morta o sia nell’impossibilità di assistere i figli).

La problematica oggetto di esame, ossia la possibilità di assicurare un rapporto tra minore e madre detenuta al di fuori dell’ambiente carcerario, affinché il bambino possa subire il meno possibile la condizione della madre, è di assoluta rilevanza.

La gravità del fenomeno dei bambini ristretti, per quanto sussistente, riguarda tuttavia un basso numero di soggetti. Quella femminile è infatti una porzione molto ridotta della popolazione carceraria, costituita per la stragrande maggioranza da soggetti di sesso maschile; ciò in quanto le donne commettono, per lo più, reati a bassa pericolosità sociale e quindi possono beneficiare delle misure alternative alla detenzione.

Pertanto, il numero  di bambini di età inferiore ai tre anni che oggi vive in carcere è alquanto contenuto. Al 31 dicembre 2017 negli istituti penitenziari italiani risultano presenti 56 bambini, al seguito di 51 madri, delle quali 21 italiane e 30 straniere. Dei 56 minori, circa 2/3 sono ospitati con la madre all’interno degli Istituti a custodia attenuata dedicati (Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”). Gli altri sono inseriti nel circuito penitenziario ordinario (ben 14 figli di donne detenute si trovano a Roma Rebibbia).

Nei confronti dei bambini-detenuti, il quadro giuridico nazionale, comunitario ed internazionale vigente, impone di considerare come preminente l’interesse del bambino rispetto alle esigenze punitive dello Stato. Le modalità di esecuzione della pena o delle misure cautelari non possono quindi ignorare i bisogni del bambino cui, ad esempio, in determinate fasi del suo sviluppo va garantito un rapporto con entrambi i genitori e ascendenti e parenti di ciascun ramo genitoriale.

Nel 2011 è, infine, intervenuta la legge n. 62, recante “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, con l’obiettivo di superare “i limiti applicativi emersi dall’esperienza precedente e il degradante fenomeno dei bambini detenuti”. Le principali novità introdotte dalla legge 62/2011 sono le seguenti:

  •  le donne condannate a pene detentive in stato di gravidanza o con figli minori non possono essere più detenute in carcere fin quando il bambino non ha compiuto il sesto anno di età, se non nella ipotesi in cui vi siano “esigenze di eccezionale rilevanza” (in tal caso la detenzione deve essere disposta presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri – c.d. ICAM);
  • le norme previste sono applicabili anche al padre, nel caso in cui la madre sia deceduta oppure assolutamente impossibilitata all’assistenza dei figli;
  • nuove regole sono previste per quanto concerne il diritto di visita al minore infermo, anche non convivente da parte della madre detenuta o del padre;
  • nell’ipotesi di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza può concedere il permesso con provvedimento urgente alla detenuta o imputata (o al padre) per far visita al figlio malato, con modalità che devono tener conto (nel caso ad esempio di ricovero ospedaliero) della durata del ricovero e del decorso della patologia. Nelle ipotesi assolutamente urgenti il permesso viene concesso dal direttore dell’istituto;
  •  viene riconosciuto il diritto della detenuta o imputata (o del padre) di essere autorizzata dal giudice all’assistenza del figlio minore per le visite specialistiche, con un provvedimento che deve essere rilasciato non oltre le 24 ore precedenti la data della visita;
  • nel caso in cui non vi sia concreto pericolo di fuga o di commissione di altri delitti e vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, le detenute possono espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo privato o luogo di cura dopo aver scontato almeno un terzo della pena o almeno 15 anni nel caso di condanna all’ergastolo. Altra novità concerne gli arresti domiciliari delle condannate incinte (o madri di figli con età inferiore a 10 anni), in quanto si prevede che le condanne, in tal caso, possano essere espiate fino a 4 anni presso una casa famiglia protetta.

E’ evidente dalle modifiche introdotte che, pur avendo il legislatore innalzato il livello di protezione dell’interesse del minore, non vi ha riconosciuto una rilevanza assoluta: è attribuita, infatti, una forte discrezionalità al giudice nella valutazione da cui dipende l’applicazione della misura, circa il concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, in attuazione del principio di bilanciamento fra i diversi valori costituzionali in gioco e ciò determina una relativizzazione della tutela degli interessi del minore.

Un limite all’effettività della normativa in materia di detenzione domiciliare, comune alla normativa relativa alle misure cautelari, è, inoltre, rappresentato dalla disponibilità delle nuove strutture ivi previste. La legge e il relativo decreto attuativo dispongono, infatti, esplicitamente che il Ministro della giustizia “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette”.

Considerate le difficoltà economico-finanziarie degli enti locali (sussistenti ancor oggi, anche a seguito del loro riassetto attraverso la cd. legge Delrio, e la legislazione successiva), sono pochissime le case famiglia istituite su tutto il territorio nazionale.

La considerazione di tali aspetti non può non indurre a riflettere sul condizionamento che elementi di natura economica, che non dovrebbero assumere lo stesso peso dei diritti fondamentali in una necessaria operazione di bilanciamento, possono determinare sulle persone, addirittura su minori, innocenti, al punto da segnarne per sempre lo sviluppo e la vita.

Per il prossimo futuro le prospettive di progresso nella protezione della prole contro la carcerazione materna si muovono entro l’orizzonte segnato dalla recente legge di delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (art. 1 co. 85 lett. s della legge 23 giugno 2017, n. 103), che prevede la “revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all’imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età”.

Secondo lo schema di d.lgs. approvato dal Consiglio dei Ministri il 22.12.2017, le novità interesseranno soprattutto la disciplina della detenzione domiciliare speciale, volendosi apportare modificazioni all’art. 47-quinquies,volte a preservare il rapporto tra detenute madri e padri con figli minori con l’estensione del riferimento anche al figlio portatore di disabilità grave. Tale previsione recepisce poi i moniti della Consulta (Corte cost. n. 76 del 2017) che di recente aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del co. 1 bis dell’art. 47-quinquies, limitatamente alle parole “salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis”, con la pretesa di una “considerazione preminente” per l’interesse superiore del fanciullo in tutte le decisioni dell’autorità pubblica che lo riguardino. Si prevede, poi, nel co. 1-bis la possibilità per le madri di espiare la pena negli istituti a custodia attenuata subordinando l’assegnazione a tali istituti al consenso delle detenute.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.