Il nesso di causalità nel diritto penale, artt. 40 e 41 c.p.

In materia penale, il nesso di causa rappresenta un elemento costitutivo del reato in tutte quelle fattispecie incriminatici che prevedono un evento naturalistico. Il nesso (dal latino nectere, cioè legare) può definirsi come ciò che lega la condotta dell’agente, e l’evento. Tale collegamento consente, ispirato ai principi di materialità (art. 25, comma 2, Cost.) e di personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1, Cost.), l’imputazione – sul piano oggettivo – di un evento lesivo al soggetto che ha contribuito, con la propria condotta, alla verificazione del risultato dannoso.

La causalità penale rinviene la propria disciplina agli artt. 40 e 41 c.p.

Il legislatore non fornisce utili indicazioni al fine di orientare l’interprete nella ricostruzione della nozione di causalità, né nella definizione del criterio di accertamento della medesima rilevante per il diritto. Di qui lo sforzo dottrinale e giurisprudenziale di elaborare una nozione di causalità, tenendo conto delle acquisizioni proprie delle scienze naturali, che sia valida per il diritto. Sono state al riguardo elaborate varie teorie.

Teoria della Condicio sine qua non

Secondo la teoria della condicio sine qua non (o condizionale o della equivalenza delle condizioni), per causa deve intendersi ogni singola condizione dell’evento naturalisticamente intesa, senza la quale l’evento non si sarebbe verificato. Tutte le condizioni necessarie e sufficienti per produrre l’evento sono causa dello stesso e, in tale ottica, finiscono per equivalersi.

La condotta umana è quindi da reputare causa di un evento quando, alla stregua di un giudizio ex post (svolto cioè dopo la produzione dell’evento), possa considerarsi, sia pure unitamente ad altre cause, condicio sine qua non dell’evento medesimo.

Il meccanismo per individuare se un’azione possa ritenersi causa di un evento è rappresentato dal c.d. giudizio controfattuale (cioè contro i fatti), occorre cioè procedere all’ideale eliminazione del fattore dato per condizionante e verificare se, senza di esso, l’evento si sarebbe ugualmente prodotto.

Pure recepita da dottrina e giurisprudenza di maggioranza, la teoria condizionalistica è stata oggetto di diversi rilievi critici, che hanno condotto ad apportarvi dei correttivi.

In primo luogo si è obbiettato che essa risulta utilizzabile solo ove si conoscono in anticipo le leggi causali che presiedono ai rapporti tra determinati fenomeni. Il giudice può affermare che l’azione è causa dell’evento in quanto vi sia una legge scientifica che affermi che quell’azione rientra nel novero di quegli accadimenti capaci di realizzare quell’evento.

In secondo luogo, proprio perché in base a tale teoria tutte le condizioni che concorrono alla produzione dell’evento sono da considerarsi equivalenti, la teoria de qua se portata alle sue estreme conseguenze porterebbe a considerare causali anche i remoti antecedenti dell’evento con una regressione all’infinito:paradossalmente si potrebbe ritenere che un omicidio sia da attribuire causalmente anche i genitori dell’omicida, poiché se questi non lo avessero procreato, l’omicidio non sarebbe mai stato commesso.

Inoltre, la teoria condizionalistica parrebbe inapplicabile alle ipotesi di causalità addizionale, in cui diverse condizioni operano congiuntamente e ciascuna di esse sarebbe da sola sufficiente a produrre l’evento, sicché eliminando astrattamente una di esse potrebbe affermarsi che l’evento si sarebbe comunque prodotto in conseguenza dell’altro fattore (es. A e B immettono un eguale dose mortale di veleno, l’uno all’insaputa dell’altro, nel pasto di C); e nelle ipotesi di causalità alternativa ipotetica, in cui vi è la prova che un processo causale diverso da quello verificatosi in concreto avrebbe comunque cagionato l’evento (si pensi all’omicidio di un malato terminale, anche senza la condotta criminosa la vittima sarebbe morta ugualmente).

Proprio nel tentativo di superare i suddetti limiti, la dottrina ha elaborato dei correttivi al fine di selezionare gli antecedenti causali dell’evento, elaborando le teorie della causalità umana e della causalità adeguata.

Integrazione della teoria condizionalistica con il criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche

Prima di passare alla loro analisi, occorre ancora soffermarsi sulla teoria condizionalistica. Il problema principale posto dalla teoria condizionalistica attiene all’individuazione dei percorsi logici da seguire per giungere ad affermare che una condotta è causata di un evento.

Si è passati da una prima fase in cui la giurisprudenza accoglieva il c.d. metodo individualizzante, fondato sull’intuizione del giudice nel cogliere nel caso concreto le connessioni tra eventi e singoli accadimenti, ad una seconda fase in cui la giurisprudenza approdava a un metodo meno individualistico, ma pur sempre discrezionale, costituito dall’utilizzo di massime di esperienza. Si è infine giunti all’ineludibile esigenza di far riferimento a una legge scientifica di copertura per la spiegazione dei rapporti causali.

I precedenti orientamenti finivano infatti per rendere il giudicante quale vero e proprio produttore di leggi causali. Pertanto, si è giunti all’affermazione che l’azione è causa dell’evento se , secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, attraverso l’utilizzo di un metodo scientifico, l’evento risulti conseguenza certa o altamente probabile dell’azione. Un antecedente può quindi essere condizione necessaria dell’evento solo a patto che rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica (legge di copertura), portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto.

Quanto alle leggi di copertura utilizzabili, si distinguono le leggi universali, dotate di un grado di certezza assoluto, e quelle statistiche, che invece attestano il verificarsi di un evento in una certa percentuali di casi.

L’uso di leggi statistiche comporta che l’accertamento del nesso di causalità si connoti di carattere probabilistico. A tal fine, la giurisprudenza ha sottolineato di tenere distinti il concetto di probabilità statistica da quello di probabilità logica (v. S.U. sent. 10 luglio 2002 n. 30329, Franzese).

La probabilità statistica attiene alla individuazione della frequenza che caratterizza una determinata successione di eventi, la probabilità logica contiene la verifica aggiuntiva, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego di una legge statistica nel caso concreto e delle persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale.

I canoni probatori tipici del giudizio penale esigono infatti un approccio valutativo che, lungi dall’esaurirsi nell’adozione di un determinato coefficiente di probabilità statistica, sia in grado di vagliare la razionale credibilità di quel coefficiente in relazione al caso concreto. Va rifiutato ogni automatismo tra livello di probabilità statistica ed esito dell’accertamento giudiziale: non può dedursi automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso di causalità, poiché il giudice deve sempre verificarne la validità nel caso concreto.

Pertanto, affinché l’accertamento del nesso causale, oltre ad essere statisticamente probabile, sia anche logicamente credibile, è necessario che il giudice, una volta individuata la legge statistica, escluda l’intervento di altri fattori causali che nel caso concreto potrebbero avere causato l’evento in alternativa alla condotta del reo. Il nesso causale potrà considerarsi giudizialmente accertato solo quando, a prescindere dal coefficiente di probabilità statistica (che può essere tanto elevato, quanto basso), all’esito del ragionamento probatorio il giudicante abbia escluso l’interferenza di fattori alternativi, e vi sia un’elevata probabilità logica o credibilità razionale che la condotta del soggetto sia stata causa dell’evento (v. sent. Franzese sopra citata).

Dei principi elaborati dalla sentenza Franzese è stata fatta applicazione anche in materia di infortuni e malattie sul lavoro derivanti da esposizioni a sostanze tossiche (v. caso Eternit).

Legittimo a questo punto domandarsi cosa accada ove manchino leggi scientifiche idonee ad attestare una relazione di regolarità causale tra una determinata condotta e l’evento in concreto verificatosi. Sul punto si è pronunciata Cass. Pen. sez. IV n. 36804 del 2004, ritenendo che la causalità sussiste non solo in presenza di leggi scientifiche, ma altresì quando ricorrano criteri medio-bassi di probabilità c.d. frequentista, nulla escludendo che anche essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario rapporto di causalità. Più che la mera probabilità statistica, ciò che rileva è la probabilità logica, in forza della quale il nesso di causalità è accertato quando possa ritenersi, in termini di certezza processuale, all’esito del ragionamento probatorio del giudice, che la condotta tenuta dal reo sia condizione necessaria dell’evento occorso.

Il concorso di cause

La vigenza nel nostro ordinamento del principio di equivalenza delle cause è confermata dall’art. 41, commi 1 e 3 c.p., secondo cui il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione/omissione dell’agente, non escludono il rapporto di causalità; la causa concorrente può essere costituita anche dal fatto illecito altrui.

A vivaci discussioni ha invece dato luogo l’interpretazione del comma 2 del medesimo art. 41 c.p. laddove si riferisce alle cause sopravvenute da sole sufficienti a produrre l’evento quali condizioni idonee a interrompere il nesso di causalità.

Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, si sostenne che tale disposizione si riferisse alle ipotesi in cui alla condotta criminosa sopravviene una serie causale assolutamente autonoma. Si tratta di una causalità c.d. interrotta o sorpassante, in cui l’evento è riconducibile in via esclusiva al fatto sopravvenuto, senza che possa più scorgersi alcun nesso eziologico con la precedente condotta.

La sopra esposta interpretazione dell’art. 41, comma 2, c.p. è stata tuttavia sottoposta a serrata critica da parte di chi ha sottolineato che la concausa sopravvenuta, proprio perché interagente con la condotta, non può considerarsi totalmente autonoma e avulsa dalla stessa, ma andrebbe invece considerata nella sua interazione con la precedente condotta del soggetto, al fine di verificarne l’effettiva incidenza ad interrompere il nesso causale. Inoltre, ove tale disposizione venisse interpretata come sopra, essa si rivelerebbe del tutto inutile, atteso che in tali casi potrebbe pervenirsi alla medesima soluzione dell’assenza del nesso condizionante, facendo applicazione già dell’art. 40.

Invero, secondo tale orientamento, il comma 2 dell’art. 41 c.p. ha la funzione di apportare un temperamento all’eccessiva rigidità della teoria condizionalistica. Esso riguarda infatti quei processi causali non del tutto avulsi dalla condotta, ma caratterizzati da un percorso causale completamente atipico, anomalo ed eccezionale.

Pertanto, le cause sopravvenute di cui all’art. 41 co. 2 cp. vanno riferite a quei fattori non necessariamente del tutto avulsi dalla condotta dell’agente, ma che , pur inserendosi nella serie causale avviata dall’agente, si connotano di atipicità ed eccezionalità.

Va precisato come tale idoneità a interrompere il nesso causale può essere riconosciuta solo ai fattori eccezionali sopravvenuti, non anche simultanei o preesistenti. Mentre infatti le cause sopravvenute possono essere imprevedibili in quanto eccezionali, quelle preesistenti/simultanee sono astrattamente conoscibili dall’agente, e pertanto irrilevanti al fini di escludere il nesso di causalità.

Teoria della causalità adeguata

Nell’ambito di questo orientamento, parte della dottrina ha interpretato l’art. 41 comma 2 come attestante il recepimento della teoria della causalità adeguata, la quale richiede che perché un evento possa essere causa di una condotta umana, occorre non solo che la condotta sia stata condizione necessaria dell’evento, ma anche che l’evento sulla base di un giudizio ex ante costituisca sviluppo probabile, normale e prevedibile (o semplicemente non improbabile) di quella condotta.

Tale teoria non ha però avuto ampio seguito, essendo alla stessa state mosse due obiezioni:

  • essa finisce per includere nell’ambito della causalità considerazione che attengono alla sfera della colpevolezza;
  • Lo stesso concetto di adeguatezza della causa è soggetto ad applicazioni incerte.

Teoria della causalità umana

Altra parte della dottrina ha invece interpretato l’art. 41 comma 2 come positivizzante la teoria della causalità umana, secondo la quale possono considerarsi causati dall’uomo soltanto quegli eventi che lo stesso è in grado di dominare in virtù dei suoi poteri cognitivi e volitivi, che rientrano cioè nella sua sfera di signoria. Tali non sono gli eventi eccezionali, perché imprevedibili, e che sfuggono quindi al potere di dominio dell’uomo.

Ne consegue che in base alla teoria de qua, la gamma degli eventi che possono dirsi causati da un’azione risulta più circoscritta rispetto a quella consentita dalla teoria condizionalistica pura, ma più ampia rispetto all’interpretazione proposta dalla causalità adeguata. Quest’ultima infatti estromette dall’applicazione dell’art. 41 comma 2 tutti i decorsi causali anormali, mentre la teoria della causalità umana esclude i decorsi causali caratterizzati dalla presenza di fattori rarissimi ed eccezionali.

…Teorie minoritarie

Altro orientamento ancora ha tentato di dare ingresso nel nostro ordinamento, per via dell’art. 41 comma 2, alla teoria dell’imputazione obbiettiva dell’evento, secondo la quale un evento può essere considerato il risultato di una condotta per il solo fatto che la condotta abbia creato o aumentato un rischio giuridicamente non consentito e che rischio pericolo si sia anche effettivamente realizzato nel concreto. In tal modo si individua tuttavia un parametro di attribuzione dell’evento alternativo a quello condizionalistico, in cui il nesso causale si risolve nell’accertamento della violazione di una regola cautelare.

I principi sopra indicati in materia di concause valgono anche quando si tratti di valutare l’incidenza sul rapporto causale della condotta colposa della stessa vittima. Anche in tali ipotesi il rapporto di causalità non resta escluso, poiché il fatto umano costituisce anch’esso un fattore causale al pari degli altri fattori accidentali o naturali. Pertanto, colui che pone in essere una situazione di pericolo risponde anche delle conseguenze eventualmente provocate da un comportamento imprudente della vittima.

Secondo giurisprudenza ormai consolidata, il nesso causale tra la condotta colposa del datore di lavoro, reo di non aver approntato le misure di prevenzione antinfortunistiche, e l’evento, non è interrotto dal comportamento imprudente del lavoratore, quando l’infortunio sia comunque da ricondurre alla mancanza o insufficienza delle cautele che se adottate avrebbero neutralizzato proprio il rischio di siffatto evento (v. Cass. Sez. IV, 17 aprile 2012, n. 21205).

La causalità nei reati omissivi

Guardando ai reati omissivi, il nesso di causalità va inteso in relazione ad essi come causalità ipotetica o in senso normativo, posto che il rapporto tra condotta ed evento non rifletterebbe un rapporto causale in senso propriamente fisico-naturalistico, atteggiandosi invece quale equivalente normativo del nesso causale relativo a una condotta attiva, concretizzandosi in una tecnica di imputazione dell’evento funzionale alle specifiche esigenze della responsabilità penale.

L’accertamento della causalità tra omissione ed evento si basa su un giudizio ipotetico o prognostico, basato anch’esso sul modello della sussunzione sotto leggi scientifiche. Tuttavia, argomentando dal rilievo che i giudizi prognostici sono inevitabilmente esposti a margini di incertezza, si ritiene che in sede di accertamento del rapporto di causalità, non si possa giungere allo stesso livello di rigore esigibile nell’accertamento del nesso di causalità dei reati commissivi.

La causalità nei reati colposi

Guardando invece all’accertamento del nesso di causalità nei reati colposi, è necessaria una premessa.

L’essenza della responsabilità colposa risiede nella prevedibilità e prevenibilità dell’evento lesivo attraverso l’osservanza di una regola cautelare. Un evento può essere ascritto all’autore di una condotta trasgressiva a titolo di colpa solo ove questo era evitabile con la condotta non trasgressiva.

L’art. 43 c.p. nell’individuare i criteri dell’imputazione colposa richiede che l’evento si sia verificato a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline.

Alla luce di tale definizione codicistica, l’inosservanza della regola cautelare di condotta costituisce la causa dell’evento. Si tratterà quindi di verificare la sussumibilità dell’evento determinato dalla condotta trasgressiva di una regola cautelare nel novero di quegli eventi che la regola cautelare stessa mirava a scongiurare. È necessario, in altri termini, che l’evento si atteggi quale concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata mirava a prevenire.

I rapporti tra la causalità civile e la causalità penale

Va infine rilevato l’articolato dibattito sorto intorno alla questione relativa ai rapporti tra causalità penale e causalità civile.

Ben noto come nei giudizi civili aventi ad oggetto il risarcimento del danno, l’attore deve provare un duplice collegamento causale: la c.d. causalità materiale tra condotta ed evento, e la c.d. causalità giuridica tra evento e conseguenze dannose.

Si rileva una lacunosità definitoria nel codice civile per quel che attiene alla nozione di causalità, ancor più evidente che in quello penale. Pertanto, in mancanza, sono state ritenute applicabili le coordinate penalistiche di cui agli artt. 40-41 c.p., pur nel rispetto delle differenze che intercorrono tra i due ordinamenti.

In un primo momento si era operata una totale traslatio nel giudizio civile dei principi espressi in tema di causalità dalla nota sentenza Franzese. Ne derivava che il giudice civile era chiamato ad una rigorosa verifica della credibilità dell’impiego di una legge statistica al caso concreto, tale da condurre all’accertamento dell’esistenza del nesso causale al di là di ogni ragionevole dubbio.

L’orientamento oggi dominante è tuttavia nel senso che la causalità civile assume connotazioni diverse dalla causalità penale. Le logiche cui si ispirano i rimedi dell’uno o dell’altro sistema sono profondamente diverse, rispettivamente sanzionatorie e riparatorie. Gli stessi criteri d’imputazione divergono, posto che il sistema penale – a differenza di quello civile – è ispirato al principio personale della responsabilità penale con ripudio delle ipotesi di responsabilità oggettiva. Si guardi anche alle finalità, essendo quella del diritto civile di allocare il danno sul soggetto che lo ha causato, quella penale di sanzionare e prevenire comportamenti riprovevoli. Ma ciò che soprattutto rileva è la diversità della regola probatoria, essendo il processo penale fondato sulla prova oltre il ragionevole dubbio, mentre il processo civile si fonda sulla regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non.

La causalità civile corrisponderebbe in sostanza alla c.d. probabilità relativa, caratterizzata da una soglia meno elevata di probabilità logica rispetto a quella penale, rispondendo alla diversa e più elastica logica del più probabile che non.

Fonti:

  • Manuale di Diritto Penale, R. Garofoli, Nel Diritto editore, 2015.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.