Pagamento con assegni – Truffa contrattuale ed insolvenza fraudolenta

Di regola l’inadempimento contrattuale non costituisce  reato, ma un semplice illecito civile.

Tuttavia, quando sapienti “artifici” e maliziosi “raggiri” dell’uno hanno convinto  l’altro alla stipulazione di un contratto che in altre circostanze non avrebbe firmato, allora è evidente che il fatto rivelerà tutta la sua natura ingannatoria  e solo allora si potrà parlare, oltre che di illecito civile, anche di illecito penale, cioè del reato di truffa (rectius : truffa contrattuale, tipico reato in contratto).

Preliminarmente appare utile sottolineare come, sebbene il fenomeno della truffa contrattuale si manifesti con maggior frequenza nella fase prenegoziale, innestandosi la condotta decettiva nelle trattative che precedono la conclusione del contratto, esso è configurabile anche nell’ipotesi in cui gli artifizi e raggiri intervengano nella successiva fase esecutiva dell’accordo, come nel caso di mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, con condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto (Cass. pen., Sez. II., 23 giugno -14 luglio 2016, n. 29853).

Si è ritenuto, ad esempio, configurabile il reato di truffa anche qualora, nell’ambito di un’obbligazione già assunta e rimasta inadempiuta, il debitore consegua mediante inganno (nella specie costituito dalla esibizione di due polizze fideiussorie prive di valore) il differimento delle azioni recuperatorie o esecutive ai suoi danni, giacché tale indebito vantaggio costituisce un ingiusto profitto con correlativo danno per il creditore (Cass. pen., sez. II, 14 febbraio 2012, n. 5572).

Il semplice pagamento di merci effettuato mediante assegni di conto corrente privi di copertura non è sufficiente a costituire, di regola, un raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo, ma concorre a realizzare il delitto di truffa quando sia accompagnato da un quid pluris, da un malizioso comportamento dell’agente, da fatti e circostanze idonei a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull’apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sul pagamento degli assegni (cfr. Cass. sez.  II, 20 febbraio 2014, n. 10850).

Nel caso poi di assegni postdatati, va notato che la postdatazione è già di per sé un indice rivelatore della mancanza di copertura dell’assegno. Il quid pluris – il malizioso comportamento dell’agente – potrebbe, tuttavia, ben consistere nel fornire rassicurazioni al prenditore circa la disponibilità futura della necessaria provvista finanziaria, sì da legittimare l’aspettativa del prenditore a vedere soddisfatte le proprie pretese, confidando sull’apparente onestà del soggetto attivo (v. Cass. sez.  II, 18 giugno 2010, n. 28752).

O ancora, si è ritenuto configurato il delitto di truffa nel fatto di colui che acquisti merce con assegni postdatati di rilevante valore, poi risultati emessi a vuoto, ove il momento conclusivo del contratto e della consegna degli assegni in cambio della merce ricevuta sia stato preceduto da lunga trattativa, costituita, da parte dello acquirente, da una serie di artifici, di raggiri e di messe in scena, idonei ad ottenere la credibilità da parte dell’altro contraente, sì da indurlo in errore sulla consistenza patrimoniale ed economica della controparte (Cass., Sez. II Penale, 23.10.1984 n. 9032).

Insomma, la definizione astratta delle condotte tipiche si è progressivamente trasformata in una tipizzazione causale dell’illecito, spostando il baricentro della fattispecie incriminatrice dalla causa, ovvero dall’attività dell’agente, al suo effetto, rappresentato dalla necessaria induzione in errore del soggetto passivo.

Ecco allora che assumono rilevanza penale anche comportamenti, finanche omissivi, non tipicamente riconducibili alla nozione di raggiri o artifizi. Ciò che conta davvero, secondo le impostazioni più recenti, è la sussistenza di una relazione causale tra l’attività ingannatoria dell’agente e l’effettiva induzione in errore della persona offesa, a prescindere dalle concrete modalità di manifestazione della prima.

Ciò si riflette anche nell’interpretazione dell’elemento soggettivo della truffa contrattuale: “l’elemento che imprime al fatto della inadempienza il carattere di reato è costituito dal dolo iniziale (generico, diretto o indiretto, n.d.r.), quello cioè che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei contraenti rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria”(Cass. pen., Sez. II., 23 giugno -14 luglio 2016, n. 29853).

Quanto invece al momento consumativo, il delitto di truffa, nella forma cosiddetta contrattuale, si consuma non al momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma al momento in cui si realizza il conseguimento del bene da parte dell’agente con la conseguente perdita dello stesso da parte della persona offesa (reato di danno). Tale approccio ermeneutico consente allora di spostare in avanti la consumazione del reato al momento in cui si realizza la deminutio patrimonii, ovvero si verifica l’effettivo danno per la vittima.

Ciò rileva, soprattutto, per i contratti ad esecuzione periodica o continuata e per i contratti ad esecuzione differita, che dilatano la fase esecutiva del contratto, ampliando lo spazio temporale in cui può innestarsi la condotta truffaldina. Sicché lo spostamento del momento consumativo al compimento dell’ultimo atto dannoso consente di attribuire rilevanza a tutte le condotte fraudolente che si manifestino prima di esso.

Il momento consumativo del delitto di truffa contrattuale non può, pertanto, essere individuato in via preventiva ed astratta, essendo indispensabile muovere dalle peculiarità del singolo accordo, della volontà contrattuale, delle modalità della condotta e così via, al fine di individuare in concreto quale sia l’effettivo pregiudizio correlato al vantaggio e quale il momento del loro prodursi (cfr. Cass. sez.  feriale, 26 luglio 2012, n. 31044).

La validità delle considerazioni svolte emerge anche dall’analisi della contigua ipotesi di insolvenza fraudolenta di cui all’art. 641 c.p., incriminante quelle condotte del debitore che, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, contrae un’obbligazione con il proposito di non adempierla, e che si collocano nella zona grigia tra l’illecito civile e la truffa, non assumendo i connotati tipici del raggiro o dell’artifizio.

In pratica, ciò che distingue il mero inadempimento civilistico dal suddetto illecito penale è il “preordinato proposito di non adempiere la prestazione”. Il debitore, cioè, doveva avere già a monte il proposito di non pagare, fingendo il contrario davanti al creditore.

Lo stato di insolvenza presupposto dalla norma deve sussistere nel momento in cui la parte, successivamente inadempiente, contrae l’obbligazione. Ne consegue che sono ad esso estranei i casi in cui l’inadempimento si ricolleghi ad uno stato d’insolvenza, ancorché preordinato e imputabile al debitore, che sia però soltanto sopravvenuto (Cass. sez. II, 21 gennaio – 17 febbraio 2015, n. 6847 ).

L’accertamento del proposito di non adempiere può essere desunto anche dal comportamento successivo all’assunzione dell’obbligazione ma non esclusivamente dal mero inadempimento, che in sé considerato offre un indizio equivoco del dolo iniziale. È stato, ad esempio, considerato comportamento idoneo a tal fine, quello del debitore che abbia fornito – fin dal momento immediatamente successivo alla stipula – continue rassicurazioni al creditore sulla sua futura solvibilità, in ciò desumendosi il preordinato proposito di non adempiere all’obbligazione contratta.

Pertanto, chi emette un assegno a vuoto, pur sapendo in quello stesso momento che il conto è scoperto non commette reato. Lo commette, invece, chi, nel momento in cui stacca il titolo e lo consegna al creditore, lo tranquillizza (esplicitamente o con comportamenti tali da far desumere ciò) sulla presenza di fondi per poter coprire il pagamento. .

Questo principio è stato di recente esteso anche a un’altra fattispecie: quella dell’emissione di assegno senza data. Secondo, infatti, una recentissima sentenza della Cassazione, integra il reato di insolvenza fraudolenta il pagare un creditore con un assegno sprovvisto di data sapendo di non avere copertura in banca (Cass. sez. II, 22 gennaio 2016, n. 3012). L’assegno privo di data non è infatti equiparabile a un assegno postdatato, bensì a un titolo che il creditore può incassare in qualsiasi momento e che favorisce il beneficiario e non il contrario.

Nel caso di specie, veniva accertato che l’imputato aveva ordinato una consistente fornitura di beni, garantendo il pagamento immediato della stessa. Successivamente alla definizione della compravendita, l’acquirente consegnava al venditore un assegno privo dell’apposizione della data, pregandolo di non incassarlo nell’immediato e reiterando tale richiesta anche successivamente. Il venditore, tuttavia, allarmato da tale condotta, pochi mesi dopo decideva, in ogni caso, di incassare l’assegno, che si scopriva privo di provvista.

Il mancato pagamento del debito contratto, l’assenza di prove dell’insorgenza di imprevisti di natura economica nonché, non ultima, la visura camerale evidenziante numerosi protesti precedenti al momento dell’ordine, venivano valutate quali prove dimostranti la condotta di dissimulazione dello stato di insolvenza dell’imputato.

La dissimulazione dello stato di insolvenza, se tale presupposto si configuri in concreto, non può consistere in un comportamento meramente omissivo, necessitando – perché si configuri il delitto di cui all’articolo 641 c.p. – un comportamento positivo che, a differenza da quanto avviene nella truffa, non induca in errore la vittima sulla solvibilità, ma dissimuli l’insolvibilità, e, quindi, non induca in errore la parte lesa, lasciandola, invece, nell’ignoranza al riguardo (Corte app. pen.Napoli, sez. II, 28 febbraio 2011, n. 951).

Il termine per la presentazione della querela per il reato di insolvenza fraudolenta decorre non già dalla data in cui si verifica l’inadempimento dell’obbligazione, ma da quella in cui il creditore acquisisce la certezza che l’obbligato, contraendo l’obbligazione, aveva dissimulato il proprio stato di insolvenza ed aveva contratto l’obbligazione con il proposito di non adempierla (Cass. sez. II, 23 ottobre 1997, n. 9552: nella fattispecie è stato ritenuto termine iniziale quello del tentativo di esecuzione forzata esperito dal creditore).

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.