Il principio di riserva di legge e le sentenze in malam partem

riserva di legge e sentenze in malam partem

Il principio di riserva di legge è un corollario del principio di legalità, di cui all’art. 25 comma secondo della Costituzione.

A livello primario è disciplinato dagli artt. 1 e 199 del codice penale.

La CEDU assicura la riserva di legge all’art. 7.

Tale principio attribuisce al legislatore statale il monopolio della politica criminale, al fine di garantire la rappresentatività e democraticità dell’azione penale.

Il Parlamento è l’organo costituzionale maggiormente rappresentativo della volontà popolare, in grado di tutelare anche i diritti delle minoranze attraverso il dialogo politico con la maggioranza.

L’orientamento assolutamente prevalente ritiene che la riserva di legge abbia natura tendenzialmente assoluta.

La materia penale, pertanto, deve essere disciplinata interamente dalla legge statale.

Le fonti secondarie possono effettuare solo specificazioni tecniche, su elementi e nel rispetto dei criteri individuati dalla fonte primaria.

Alla luce della ratio sottesa al principio ex art. 25 comma secondo della Costituzione, ci si è interrogati circa l’ammissibilità delle sentenze in malam partem della Corte Costituzionale.

Sono tali le pronunce con cui la Consulta produce effetti sfavorevoli in ambito penale.

Le sentenze in questione sono inammissibili ogni volta che sottendono scelte di politica criminale.

Il Giudice delle leggi, infatti, non può introdurre nuovi reati o intervenire sull’area del penalmente rilevante, altrimenti verrebbe violata la riserva di legge a favore del Parlamento nazionale.

Ciò accade, ad esempio, con le sentenze manipolative-additive, ossia quelle pronunce con cui viene dichiarata l’incostituzionalità di una legge nella parte in cui non prevede qualcosa che avrebbe dovuto prevedere.

Le sentenze in malam partem, invece, sono compatibili con l’art. 25 comma secondo della Costituzione qualora l’effetto pregiudizievole sia la conseguenza automatica e fisiologica della declaratoria di incostituzionalità.

La giurisprudenza costituzionale delimita i propri ambiti di intervento utilizzando la distinzione tra nome di favore e norme favorevoli.

La norma penale è detta di favore quando prevede un trattamento meno afflittivo solo per una o più classi di soggetti, rispetto alla legge generale avente efficacia erga omnes.

La legge speciale e quella generale sono sincroniche, in quanto entrambe vigenti.

La Corte, quindi, può dichiarare l’incostituzionalità della norma di favore, perché la declaratoria determina la riespansione delle legge generale.

La riserva di legge non risulta violata, in quanto l’effetto in malam partem è prodotto da una legge statale

mai abrogata.

L’espressione norma favorevole, al contrario, indica una legge che si applica a tutti, la quale è entrata in vigore a seguito dell’abrogazione di una legge dal contenuto più afflittivo.

Le due norme, essendo in rapporto di successione, sono diacroniche.

La Consulta non può dichiarare incostituzionale la legge, poiché si determinerebbe la reviviscenza della norma più sfavorevole abrogata dal legislatore.

L’effetto pregiudizievole sarebbe direttamente riconducibile alla sentenza, con conseguente violazione del principio di cui al secondo comma dell’art. 25 della Costituzione.

In tal caso è possibile pronunciare una sentenza monito, con cui sollecitare l’intervento legislativo per eliminare i profili di incostituzionalità.

La distinzione tra norme favorevoli e norme di favore, però, viene meno nel caso in cui l’atto presenti vizi formali o procedurali, tali da renderlo in contrasto con il principio di riserva di legge.

La Corte, in tali ipotesi, può pronunciare declaratoria di incostituzionalità a prescindere dall’ambito di applicazione della legge.

Giova precisare che, superato il vaglio della riserva di legge, occorre valutare l’ammissibilità delle sentenze in malam partem anche con le regole che governano la successione nel tempo delle leggi penali.

Il divieto di irretroattività sfavorevole è un principio assoluto e pertanto, qualora il soggetto si sia autodeterminato sulla base di una legge incostituzionale, la declaratoria può essere pronunciata, ma non potrà produrre effetti pregiudizievoli ai danni dell’imputato nel giudizio a quo.

Al pari di quanto accade con il decreto legge non convertito, ai fatti concomitanti continueranno ad applicarsi le norme favorevoli della legge dichiarata  incostituzionale.

Il principio di retroattività in mitius, invece, è derogabile a condizione che le deroghe superino il vaglio di ragionevolezza.

La pronuncia di incostituzionalità impedisce la retroazione della lex mitior, perché la tutela dell’ordinamento costituzionale è un interesse di analogo rilevo, che giustifica la deroga alla retroattività della legge più favorevole.

La questione della compatibilità delle sentenze in malam partem con la riserva di legge è emersa anche in relazione agli obblighi di tutela penale imposti dal diritto eurounitario.

L’Unione Europea non ha una competenza penale diretta, non potendo intervenire essa stessa nelle legislazioni degli Stati membri.

Una competenza siffatta è esclusa per un duplice ordine di ragioni.

L’art. 25 comma secondo della Costituzione esige che la politica criminale venga disciplinata esclusivamente dalla legge statale.

Il diritto unionale, inoltre, si base sul principio delle competenze e non sussiste alcuna norma che attribuisca una potestà penale diretta all’Unione Europea.

Il legislatore europeo, però, ha una competenza indiretta, poiché può obbligare gli Stati ad intervenire in ambito penale.

L’effetto pregiudizievole deriva sempre dalla legge parlamentare e non da un atto eurounitario.

L’obbligo imposto dal diritto sovrannazionale può essere violato dallo Stato membro.

In merito vanno distinti due casi.

La prima ipotesi è quella in cui la norma nazionale sia ab origine sproporzionata rispetto all’obbligo previsto dal diritto unionale.

Nel caso di norma interna sproporzionata per eccesso, questa va disapplicata in ragione della primazia del diritto dell’Unione europea.

La disapplicazione, invece, non è possibile qualora la norma nazionale sia sproporzionata per difetto, perché altrimenti non si applicherebbe alcuna sanzione al reo.

In tal caso si rende necessario l’intervento del legislatore.

La seconda ipotesi è relativa alla violazione successiva dell’obbligo di tutela penale.

Può accadere, infatti, che lo Stato emani una legge conforme, ma successivamente la abroghi introducendo una legge non rispettosa dell’obbligo di fonte europea.

Ci si è chiesti quale sia la conseguenza di tale inosservanza.

Il giudice nazionale non può disapplicare la legge contrastante e continuare ad applicare la norma abrogata dal legislatore nazionale.

Se ciò accadesse il diritto dell’Unione Europea produrrebbe effetti penali diretti che gli sono preclusi.

Il giudice, quindi, deve sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione.

Giova precisare che la declaratoria di incostituzionalità è ammissibile anche se la legge dovesse essere qualificata come norma favorevole nell’ordinamento nazionale.

La ragione è che se la natura della norma nazionale potesse impedire l’intervento della Corte Costituzionale, le direttive che impongono obblighi di tutela penale perderebbero la loro efficacia vincolante.

Autore : Dott. Mario Guarracino