Il collaboratore di giustizia: protezione e premialità

La figura del collaboratore di giustizia venne normata per la prima volta con l’emanazione del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 marzo 1991 n. 82 (nella norma chiamato semplicemente come collaboratore), successivamente modificata dalla L.13 febbraio 2001 n. 45, che ha – tra altro – introdotto successivamente la figura del testimone di giustizia.

Si definisce collaboratore di giustizia o, più comunemente, pentito, l’appartenente ad un’organizzazione criminale di tipo mafioso o terroristico, il quale decide, dopo la propria cattura, di dissociarsi dall’organizzazione e rilasciare alle autorità inquirenti confessioni o informazioni utili alle indagini.

Al collaboratore di giustizia, la legge accorda oltre che l’applicazione di speciali misure di protezione, anche diversi benefici premiali (v. art. 58 ter o.p. e art. 8 D.L. 152/1991).

Lo status di “collaboratore di giustizia”, presupposto dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione e degli istituti premiali da essa stabiliti o richiamati, è attribuito alle persone che versano in grave e attuale pericolo conseguente a condotte di collaborazione tenute in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

La condotta di collaborazione deve esser tenuta nel corso di un procedimento penale, deve presentare carattere di intrinseca attendibilità e deve altresì qualificarsi per novità o completezza o comunque deve apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio. Il pentito non accede, pertanto, immediatamente ai benefici di legge ma vi accede solo dopo che le dichiarazioni vengano valutate come importanti e inedite.

Il collaboratore di giustizia deve sottoscrivere, nel termine di 180 giorni (rectius, 6 mesi) dall’inizio della propria collaborazione, un verbale illustrativo nel quale sono riportati i contenuti delle sue dichiarazioni collaborative. Le dichiarazioni rese oltre il termine indicato, ed inerenti a fatti diversi da quelli sui quali il pentito è stato interrogato, non sono utilizzabili.

In materia di criminalità organizzata di tipo mafioso è assolutamente raro riscontrare negli affiliati all’organizzazione, considerati gli stretti legami familiari, delle vere scelte di natura ideologica o morale. La scelta di collaborare nasce principalmente dal timore di ritorsioni, o di rischi per la propria vita, per contrasti verificatisi all’interno delle consorterie criminali. E fin tanto che lo Stato riesce a fornire la percezione di poter tutelare il soggetto, allora si realizzano le condizioni che interessano il potenziale collaboratore, il quale, generalmente, non avanza altro genere di richieste, né ne avanzerà in seguito, se le esigenze di tutelare la propria incolumità e quella dei familiari rimarranno nel tempo assicurate.

In cambio della propria collaborazione, il pentito godrà di protezione da parte dello Stato. Mentre in passato, prima della riforma del 2001, la protezione consisteva nel cambio di identità e nel trasferimento in un luogo segreto, ad oggi si cerca di personalizzare le misure di protezione, individuandole caso per caso ed adeguandole al singolo protetto, con l’obbligo di garantirgli (ove possibile e dopo adeguata valutazione dell’idoneità) un’esistenza dignitosa e collegata al passato.Il trasferimento in località protetta ed il cambio d’identità non costituiscono più la regola, ma ipotesi derogatorie ed eccezionali, applicabili solo quando le altre forme di tutela risultino assolutamente inadeguate rispetto alla gravità ed attualità del pericolo.

Al collaboratore viene inoltre assicurato: una sistemazione alloggiativa, il rimborso delle spese sostenute per i trasferimenti, per le spese sanitarie (quando non sia possibile avvalersi delle strutture pubbliche ordinarie) e per l’assistenza legale, oltre ad un assegno di mantenimento nel caso di impossibilità a svolgere attività lavorativa, affinché gli sia assicurata una condizione economica equivalente a quella preesistente. Sono anche previste misure di reinserimento sociale e lavorativo quali, per esempio, la conservazione del posto di lavoro o il trasferimento presso altre amministrazioni o sedi (se si tratta di dipendenti pubblici o privati), nonché il diritto a beneficiare di specifiche forme di sostegno alla propria impresa, il diritto a un nuovo posto di lavoro, anche temporaneo, con mansioni e posizione equivalenti a quelle che il collaboratore di giustizia ha perso in conseguenza delle sue dichiarazioni.

Le misure di protezione possono, anche oggi come per il passato, essere revocate o modificate con riferimento alla gravità, intensità ed effettività del pericolo al quale sono esposti i collaboratori, tenendo naturalmente conto anche della fase in cui il procedimento si trova. Si può, inoltre, procedere a revoca o modifica della misura per motivi “disciplinari”, vale a dire in conseguenza del mancato rispetto da parte del collaboratore degli impegni assunti all’atto dell’inserimento nel sistema tutorio.

La revoca, ovviamente, può conseguire alla commissione di reati segno del reinserimento del soggetto nel circuito criminale. Vengono poi presi in considerazione quei comportamenti tenuti dal collaboratore che rendono eccessivamente gravoso, ovvero superfluo, il compito del servizio centrale di protezione  e infine vanno considerati l’esplicita rinuncia ad avvalersi delle misure di protezione ed il rifiuto di sottoporsi al contraddittorio in sede dibattimentale.

La fruizione dei benefici penitenziari compatibili con lo status di collaboratore, è subordinata alla espiazione di almeno un quarto della pena inflitta al collaboratore e se si tratta di persona condannata all’ergastolo di almeno dieci anni.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.