Illegittimo l’art. 516 cpp laddove non prevede la facoltà di chiedere il patteggiamento

Art. 516 c.p.p. – questione di legittimità costituzionale – modifica dell’imputazione – contestazione fisiologica – contestazione patologica – accesso a riti alternativi al dibattimento – richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Con ordinanza del 24 febbraio 2016, il Tribunale di Torino sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 24 comma 2 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 516 c.p.p., «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto di nuova contestazione».

Il Tribunale rimettente riferiva di essere investito del procedimento penale per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, contestato a due imputati in concorso tra loro, e per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, contestato ad uno solo di essi, e che nel corso dell’istruzione dibattimentale il pubblico ministero aveva modificato le imputazioni, ai sensi dell’art. 516 c.p.p., descrivendo diversamente i fatti loro ascritti.

Dopo la sospensione del processo e la notificazione del verbale agli imputati assenti, le parti avevano presentato richieste congiunte di applicazione della pena per le fattispecie risultanti dalla nuova contestazione. Le richieste sarebbero inammissibili perché presentate dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 446, comma 1, c.p.p.

Secondo il collegio rimettente, tuttavia, anche nel caso di modificazione “fisiologica” dell’imputazione (fondata su fatti emersi per la prima volta nel corso dell’istruzione dibattimentale), impedire la richiesta di patteggiamento sarebbe in contrasto con l’art. 24, secondo comma, Cost., perché determinerebbe una compressione dei diritti di difesa dell’imputato, al quale non potrebbe «essere addebitata alcuna colpevole inerzia», né potrebbero «esser attribuite le conseguenze negative di un “prevedibile” sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato liberamente assunto».

La disposizione censurata, inoltre, violerebbe l’art. 3 Cost., sotto due profili. In primo luogo, perché, anche in relazione alla modificazione “fisiologica” della imputazione, l’imputato che subisce una nuova contestazione verrebbe a trovarsi in una posizione diversa e deteriore, quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena, rispetto a chi della stessa imputazione fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio. In secondo luogo, perché sarebbe irragionevole una disciplina processuale, che, nel caso di contestazione “fisiologica” del fatto diverso, ex art. 516 c.p.p., consentisse «all’imputato di recuperare i vantaggi connessi ad alcuni riti speciali (il giudizio abbreviato e l’oblazione, sulla base della normativa quale risultante dalle sentenze “additive” Corte cost. nn. 273/2014 e 530/1995, normativa da utilizzarsi quale tertium comparationis), impedendo invece l’accesso al rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, con ulteriore, sospetta, violazione dell’art. 3 Cost.».

La Corte Costituzionale, investita della questione, l’ha ritenuta fondata, con sentenza n. 206 del 5 luglio 2017 (dep.17 luglio 2017). Condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa – rileva la Corte – è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti, e ciò vale non solo per il giudizio abbreviato, ma anche per il patteggiamento. In questo procedimento infatti, la valutazione dell’imputato è indissolubilmente legata, «ancor più che nel giudizio abbreviato, alla natura dell’addebito, trattandosi non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale» (cfr. C.Cost. sentenza n. 265 del 1994).

Il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione per diversità del fatto risulta strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.), partecipa, del resto, della medesima ratio di garanzia. Dunque, non qualsiasi variazione o puntualizzazione dell’accusa originaria comporta tale obbligo, «ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto di difesa dell’imputato: in altre parole, la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nell’art. 516 cod. proc. pen., va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito» (v. C.Cost. sentenza n. 273 del 2014).

Non possono essere decisivi in senso contrario gli argomenti, fatti valere in passato, relativi, da un lato, alla necessaria correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale e, dall’altro, all’assunzione, da parte dell’imputato (che non abbia tempestivamente chiesto il patteggiamento), del rischio della modificazione dell’imputazione per effetto di sopravvenienze.

Sotto il primo profilo, infatti, va osservato che l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, sia consentendo al Giudice di verificare l’esistenza delle condizioni per l’applicazione della pena, senza alcuna ulteriore attività istruttoria, sia escludendo l’appello e, almeno tendenzialmente, anche il ricorso per cassazione. In ogni caso, le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché «“l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa» (così C. Cost. sentenza n. 237 del 2012). Va inoltre aggiunto che il patteggiamento «è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza, che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento» (C. Cost. sentenze n. 184 del 2014 e n. 265 del 1994; ordinanza n. 486 del 2002).

Né può ritenersi che in seguito a una modificazione “fisiologica” dell’imputazione possa rimanere preclusa la facoltà di chiedere il patteggiamento perché l’imputato, non avendolo chiesto prima, si sarebbe assunto il rischio di tale evenienza. Infatti «non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta» (cfr. C. Cost. sentenza n. 273 del 2014).

Inoltre, anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” del fatto diverso è ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento – rilevata sia dalla sentenza n. 237 del 2012 che dalla sentenza n. 273 del 2014, con riguardo al giudizio abbreviato – rispetto al caso del recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al patteggiamento per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento. Ciò si verifica, in particolare, allorché, in seguito alle nuove contestazioni, il reato rientra tra quelli per cui si procede con udienza preliminare, e questa non sia stata tenuta. In tale ipotesi infatti il giudice – ove la relativa eccezione sia sollevata nei prescritti termini di decadenza – deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1-ter, e 521-bis c.p.p.), con l’effetto di rimettere in termini l’imputato per la richiesta del rito alternativo.

In conclusione, per il contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 3 Cost., l’art. 516 c.p.p. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.