La Procura di Milano chiede sollevarsi questione di legittimità dell’art. 580 c.p. – aiuto al suicidio

Lo scorso 6 luglio, innanzi al G.i.p. del Tribunale di Milano, si è tenuta l’udienza camerale, a seguito del mancato accoglimento de plano della richiesta di archiviazione presentata dalla Procura per il procedimento a carico di Marco Cappato, indagato ex art. 580 c.p. (Istigazione o Aiuto al suicidio) per avere accompagnato Fabiano Antoniani (alias Dj Fabo) a morire in una struttura in Svizzera, proponendo un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, tale per cui la condotta del Cappato deve essere considerata penalmente irrilevante.

Nel corso dell’udienza, i Pubblici Ministeri hanno allora riproposto le argomentazioni a sostegno della richiesta di archiviazione, chiedendo in subordine al Giudice di sollevare innanzi alla Corte costituzionale una questione di legittimità dell’art. 580 c.p.,  per violazione degli artt. 2, 3, 13, 25 co. 2 co. 2 e 3, 32 c. 2 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 8 e 14 CEDU, nella parte in cui incrimina la condotta di “partecipazione fisica” o “materiale” al suicidio altrui senza escludere la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita, quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita fonte di una lesione del suo diritto alla dignità.

Innanzitutto, l’art. 580 c.p. nella parte in cui, punendo “chiunque agevola in qualunque modo l’esecuzione ”, irragionevolmente ed in violazione della norma costituzionale di cui agli artt. 3 e 117 Cost. e 14 CEDU, indebitamente discrimina colui che, essendo malato irreversibile o terminale vuole porre termine alla propria condizione di sofferenza ma non possa farlo mediante una mera rinuncia alle cure, se non a prezzo di indicibili sofferenze.

La Costituzione, infatti, riconosce all’art. 32 il diritto a rinunciare alle cure anche quando da questa scelta derivi la morte come conseguenza inevitabile ed immediata (c.d.  eutanasia passiva). Tuttavia, in alcune situazioni, la scelta di rinunciare alle cure prospetta, per il malato e per i suoi cari, il protrarsi più o meno prolungato di una dolorosa agonia. Il divieto posto dall’art. 580 c.p. pone questi soggetti in una situazione giuridica paradossale: esporre a responsabilità penale chiunque decida di aiutarli a porre fine alla loro vita o continuare un’esistenza indecorosa nell’attesa di una morte che di “naturale” non conserva più alcunché.

Laddove, in forza dell’art. 3 Cost., lo Stato dovrebbe adoperarsi attivamente per rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, perpetra, invece, una discriminazione grave, distinguendo dal punto di vista giuridico situazioni che presentano tratti sostanziali profondamente simili.

Un ulteriore profilo di costituzionalità a venire in rilievo è poi il principio di offensività, che si ricava dal combinato disposto degli artt. 3, 25 c. 2 e 27 c. 1 e 3 Cost.

Appare ragionevole ritenere che l’art. 580 c.p., soprattutto nella sua componente di “partecipazione materiale” al suicidio altrui,  sia stata volta a tutelare i c.d. “soggetti deboli”, ossia tutte quelle persone che si trovano in condizioni di parziale o totale infermità, o comunque in una posizione di inferiorità rispetto ad altri soggetti, e che in assenza della disciplina in questione rischierebbero di trovarsi esposti a forme di “omicidiosuicidio”. Bene giuridico tutelato dunque, è sì la vita, ma solo in funzione di evitare abusi da parte di coloro che si trovano in posizione di garanzia rispetto ai suddetti “soggetti deboli”; primi fra tutti gli operatori sanitari, che si trovano ad operare in costante contatto con malati terminali o irreversibili, ma anche i familiari o coloro che di tali “soggetti deboli” abbiano in qualche misura la responsabilità.

La norma parrebbe allora formulata in maniera troppo ampia, rispetto allo scopo che essa si prefigge, sanzionando in modo indiscriminato le condotte che effettivamente ledono il bene giuridico tutelato e quelle che, al contrario, non lo pongono nemmeno in pericolo.

D’altronde, la norma mostra i segni del tempo. Nelle intenzioni del legislatore storico, il suicidio non poteva che essere l’atto di chi, ancora nel pieno delle sue forze e della sua coscienza, si toglieva la vita con scopo autodistruttivo, sottraendo forza lavoro e cittadini alla Patria; inutile dire quanto tale concezione sia lontana dalla situazione di chi, malato terminale o irreversibile e destinato ad un più o meno lento, ma inesorabile, declino, voglia scegliere in quale momento e con quali mezzi porre fine alla propria vita, vita che di naturale spesso non conserva più nulla o quasi.

In terzo luogo, la norma in esame presenta dei profili di attrito con lo stesso diritto costituzionale alla vita. Se infatti si considera la situazione del malato terminale o irreversibile, non ci si trova di fronte a persone che, nel pieno delle loro facoltà fisiche, cercano l’aiuto di terzi per togliersi la vita, ma a soggetti che, per porre in essere la loro volontà di morire con dignità, abbisognano necessariamente dell’aiuto di terzi, in quanto tipicamente privati di molte delle loro abilità motorie.

L’individuo affetto da una malattia degenerativa ed incurabile, stante l’attuale interpretazione della norma, potrebbe infatti essere portato ad anticipare il proprio suicidio ad un momento in cui è ancora in grado di compierlo in autonomia, in quanto sa che una volta raggiunto lo stadio della malattia in ciò non sarà più possibile e si troverebbe di fronte alla terribile scelta tra dover chiedere ai propri cari di commettere un reato per aiutarlo e continuare a vivere in uno stato che, nella sua personalissima scala di valutazione, rende la vita stessa indegna o comunque intollerabile.

Questa anticipazione del suicidio ad un momento in cui il malato, se sapesse di poter essere assistito in seguito nell’esecuzione del suicidio, sceglierebbe di continuare a vivere, rappresenta un’evidente lesione del diritto alla vita, che deriva direttamente dalla previsione incriminatrice in esame. Di qui la violazione della Costituzione e della CEDU.

Un ulteriore profilo di incostituzionalità della norma è dato poi dall’evidente contrasto con il diritto all’autodeterminazione. L’ art. 32 c. 2 Cost., sancendo il diritto del malato a rifiutare le cure mediche, sancisce il diritto all’autodeterminazione in campo terapeutico con un’estensione a tal punto ampia da farlo prevalere su ogni altro diritto costituzionalmente garantito, incluso il diritto alla vita.

È evidente, dunque, che il divieto posto dall’art. 580 c.p. si pone in aperto contrasto con tale diritto, impedendone completamente l’esercizio. Certamente l’esigenza di tutela dei soggetti deboli di cui la norma si fa portatrice è meritevole di attenzione e di tutela, e dunque questa non si pone in totale contrasto con la Costituzione. Tuttavia è altresì evidente che una limitazione di un diritto costituzionalmente e convenzionalmente garantito che di fatto ne precluda completamente l’esercizio, più che un bilanciamento, finisce per realizzare un’inammissibile negazione di quello stesso diritto.

Un ultimo parametro di costituzionalità con cui l’art. 580 c.p. si pone in contrasto è il diritto inviolabile alla dignità umana. Tale diritto, non espressamente previsto dalle fonti costituzionale e convenzionale, si ricava dal sistema nel suo complesso, ed in particolare da una serie di norme che pongono a proprio fondamento tale diritto.

L’art. 32 c. 2 della Costituzione è concepito al precipuo scopo di garantire la “dignità della persona umana” contro ingerenze non autorizzate nella sua sfera fisica; allo stesso modo l’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, ponendo il divieto di “trattamenti inumani o degradanti”, implica l’obbligo per gli Stati di rispettare sempre la dignità di ogni individuo.

L’art. 580 c.p., però, sancendo il divieto assoluto di aiutare chi si trovi in condizioni “indegne”, si trasforma in un “obbligo di vivere” anche quando le condizioni di vita si sono ormai a tal punto deteriorate da rendere la vita stessa fonte di una violazione della dignità. Per questo, la norma si pone in aperto contrasto anche con i parametri da ultimo richiamati, ed esige una parziale dichiarazione di costituzionalità al fine di assicurare la coerenza tra bene giuridico tutelato – l’incolumità dei soggetti deboli – e diritti sacrificati a tale scopo, tra cui appunto la dignità umana.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.