Responsabilità degli enti da reato, holding e prescrizione (Cass. 52316/16)

Cass. sez.  II, Sentenza n. 52316 ud. 27/09/2016 – deposito del 09/12/2016

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza de qua, ha affermato alcuni principi in tema di responsabilità da reato degli enti, che si ha cura di riproporre brevemente qui di seguito.


I criteri oggettivi d’imputazione.

L’art. 5, comma 1, D.lgs. 231/2001 dispone che i reati-presupposto siano commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

Secondo pacifica interpretazione, tale espressione non contiene un’endiadi, perché i predetti termini indicano concetti giuridicamente diversi, ed evocano criteri concorrenti, ma alternativi: il richiamo all’interesse dell’ente valorizza una prospettiva soggettiva della condotta delittuosa posta in essere dalla persona fisica da apprezzare ex ante, per effetto di un indebito arricchimento prefigurato, ma non necessariamente realizzato, in conseguenza dell’illecito; il riferimento al vantaggio valorizza, invece, un dato oggettivo che richiede sempre una verifica ex post quanto all’obbiettivo conseguimento di esso a seguito della commissione dell’illecito-presupposto, pur in difetto della sua prospettazione ex ante.

Qualora, poi, i due presupposti ora qualificati, ricorrano entrambi, l’ente si troverà a rispondere di una pluralità di illeciti ai sensi dell’art. 21 stesso decreto.

I criteri soggettivi di imputazione.

Sotto tale profilo, il Legislatore mostra di valorizzare un requisito soggettivo, assimilabile ad una sorte di culpa in vigilando, data dalla inesistenza di un modello di organizzazione, gestione o controllo idonei a prevenire i reati.

Grava sull’accusa l’onere di dimostrare la sussistenza dell’illecito dell’ente, mentre quest’ultimo ha l’onere di dimostrare – ai fini liberatori – di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Natura giuridica della responsabilità dell’ente.

La Corte, dopo aver esposto tutti e tre gli orientamenti circa la natura giuridica della responsabilità disegnata dal D.lgs. 231/2001 (amministrativa, penale o tertium genus), evidenzia come nemmeno la sentenza, da ultimo intervenuta, delle S.C. di Cassazione a Sezioni Unite (n. 38343/2014) sia riuscita a fare chiarezza sul punto, essendosi limitata ad escludere la natura meramente amministrativa della responsabilità in oggetto.

Ciò è stato, comunque, sufficiente, per ammettere che la disciplina di cui al D.lgs. 231/2001 deve essere compatibile con i principi dettati in tema di responsabilità penale dalla nostra Carta fondamentale.

Non inutie ricordare, qui, come la stessa Cassazione (sez. VI, sent. 18 febbraio 2010, n. 27735) abbia dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 D.lgs. 231/2001, sollevata con riferimento all’art. 27 Cost., posto che l’ente non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, bensì proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che legga i primi alla seconda.

Responsabilità della Holding.

Il D.lgs. 231/2001 non disciplina espressamente il fenomeno dei gruppi societari, che operano sotto la direzione unificante ed il controllo finanziario di una società capogruppo o holding.

Tale silentium ha, quindi, posto l’interrogativo circa la configurabilità o meno della responsabilità in disamina della società capogruppo, in riferimento ad un reato commesso nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata.

Non contenendo, il medesimo D.lgs. 231/2001, nemmeno un’espressa disciplina in materia di concorso di persone nel reato, ci si è ulteriormente chiesti se nel caso in cui una holding determini un soggetto ricoprente una posizione apicale in una società controllata a commettere un reato nell’interesse o a vantaggio di quest’ultima, potesse trovare applicazione l’art. 110 c.p., inteso come norma generale.

Sul punto, la dottrina ha rilevato che, nonostante un tale riconoscimento potrebbe risolvere molti dei problemi legati alle responsabilità dei gruppi societari, non possa ammettersi l’operatività dell’art. 110 c.p., in quanto trattasi una fattispecie d’incriminazione suppletiva e che, quindi, richiede un’espressa previsione da parte del D.lgs. 231/2001; com’è avvenuto, ad esempio, per l’ipotesi del tentativo ad opera dell’art. 26 stesso decreto.

Da parte sua, la giurisprudenza ha inizialmente affermato che la c.d. holding o altre società del gruppo possono essere ritenute responsabili ex D.lgs. 231/2001 del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purchè alla consumazione concorra almeno una persona fisica che agisca per conto della holding stessa o di altra società del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime, non essendo sufficiente un generico riferimento al c.d. interesse di gruppo.

Invero, tale orientamento non restringe ai soli enti formalmente parte del gruppo la responsabilità da reato, ampliandola piuttosto anche a quegli che risultino sostanzialmente collegati, in tutti i casi in cui – in concreto – ricorra una condotta nell’interesse o vantaggio di altra/e società del gruppo, fermo restando che la persona fisica autrice del reato presupposto deve possedere la qualifica soggettiva richiesta dall’art. 5 D.lgs. 231/2001.

È, quindi, sufficiente che in una situazione di aggregrazione di imprese (indipendentemente dalla natura dei rapporti che la caratterizzano…) una di queste possa attraverso la consumazione del reato perseguire un proprio interesse anche quando il risultato si traduca in una vantaggio per un’altra componente dell’aggregato o, nell’immediato, nel soddisfacimento di un interesse particolare di quest’ultima.

Ne consegue l’esclusione di una presunzione della coincidenza dell’interesse di gruppo con quello immediato delle singole società controllate, occorrendo sempre un accertamento concreto sull’effettivo vantaggio o interesse tratto dalla controllante per mezzo dell’azione della singola controllata.

Ciascun ente componente il gruppo societario (sia la holding, che le controllate) ha l’onere di adottare un autonomo ed adeguato modello organizzativo, a prescindere dall’opportunità di coordinare le varie iniziative assunte al riguardo.

Nel valutare l’idoneità del modello adottato, il Giudice dovrà accertare altresì l’istituzione di una funzione di vigilanza sul funzionamento e sull’osservanza dello stesso, attribuita ad un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo. Poteri che dovranno essere effettivi; e tali possono ritenersi, qualora risulti la non subordinazione del controllante al controllato.

Profilo sanzionatorio.

La tipologia delle sanzioni ivi prevista, si suddivide in sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive. Ad esse si aggiungono – ove ne ricorrano i presupposti – la confisca e la pubblicazione della sentenza di condanna.

Noto a tutti gli addetti ai lavori, che l’istituto della confisca non abbia un univoca natura giuridica, costituendo ora una misura di sicurezza, ora una vera e propria sanzione penale.

Anche nell’ambito del D.lgs. 231/2001, l’istituto della confisca si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare.

L’art. 9, comma 1, lett. c) prevede la confisca come sanzione principale, obbligatoria ed autonoma. L’art. 19, comma 2, ammette anche la confisca per equivalente.

 L’art. 6, comma 5, invece, prevede la confisca del profitto del reato, anche quando l’ente vada esente da responsabilità, per mancanza della c.d. colpa d’organizzazione. In questa ipotesi, la confisca assume natura differente da quella prevista dall’art. 19 dello stesso decreto: non ha natura sanzionatoria, proprio perché difetta una responsabilità dell’ente.

Quanto al concetto di profitto, oggetto di confisca ex art. 19 comma 2, questo va identificato unicamente nel vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato presupposto e non anche con i vantaggi indiretti derivanti dall’illecito.

Ne consegue l’impossibilità di aggredire il profitto diretto per essere venuta meno l’individualità storica del bene/cosa; individualità che il denaro per sua stessa natura non possiede.

 Prescrizione del reato-presupposto.

In presenza di una declaratoria di prescrizione del reato-presupposto, il Giudice – ex art. 8, comma 1, D.lgs. 231/2001 – deve accertare autonomamente la responsabilità amministrativa dell’ente nel cui interesse/vantaggio fu commesso.

Ai sensi dell’art. 22, l’intervenuta prescrizione dopo la contestazione dell’illecito all’ente non ne determina l’estinzione. A norma dell’art. 59 stesso decreto, infatti, la contestazione costituisce motivo di interruzione della medesima, la quale comincerà a decorrere ex novo nel momento in cui passerà in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.

Si tratta di una previsione peculiare, di una disciplina speciale, che ha passato indenne il vaglio del Giudice delle Leggi.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.