La responsabilità penale c.d. oggettiva: i delitti aggravati dall’evento

Nel nostro sistema penale sono previste specificamente forme di responsabilità c.d. oggettiva, con cui si indica quella forma di imputazione della responsabilità penale che prescinde dalla verifica della sussistenza del criterio d’imputazione soggettiva del fatto al suo autore (nelle diverse forme del dolo, della colpa e della preterintenzione, anche se la preterintenzione stessa viene, da certo orientamento, ricondotta nell’alveo della responsabilità oggettiva); essa è, dunque, caratterizzata dall’imputazione del fatto penalmente rilevante esclusivamente alla luce della ricorrenza del nesso causale tra la condotta e l’evento lesivo. Qui in re illicita versatur, tenetur etiam pro casu. La responsabilità in questione si fonda ex post sull’evento verificatosi come conseguenza diversa ed ulteriore della realizzazione di un delitto doloso.

La disposizione codicistica generale che contempla il criterio d’attribuzione della responsabilità oggettiva è individuata nell’art. 42 c.p., comma 2 nella parte in cui prevede:”…la legge determina i casi in cui l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione“. Secondo la dottrina, la previsione della responsabilità oggettiva trova la sua ragion d’essere nell’interesse perseguito dall’ordinamento al fine di impedire l’accadimento di determinati eventi. Tale necessità pone tuttavia delicati problemi di compatibilità con l’art. 27 Cost.

La responsabilità penale è personale, recita il comma 1 dell’art. 27Questo principio, degno di nota, è stato nel tempo valutato secondo varie accezioni: a) non esiste responsabilità per fatto altrui, fatta eccezione per i casi in cui vi siano posizioni di garanzia per cui un soggetto ha l’obbligo giuridico di evitare il fatto illecito di terzi; b) la responsabilità penale è della persona fisica e non dell’ente (questo assunto vale, si noti, solo qualora si accetti la natura amministrativa della responsabilità delle persone giuridiche disciplinata dal d.lgs. 231/2001); c) la responsabilità penale è per fatto proprio. Era proprio tale ultima accezione che induceva a ritenere costituzionalmente legittima l’imputazione obbiettiva dell’evento, in quanto era sufficiente che l’evento fosse una conseguenza esteriore, quindi oggettiva, dell’azione od omissione dell’agente.

L’accezione predetta contrasta, tuttavia, con il comma 2 del medesimo articolo, che dispone che le pene devono tendere alla rieducazione del reo. È di tutta evidenza che un soggetto non legato psichicamente all’evento causato non comprenderà il trattamento sanzionatorio, poiché egli giustificherà la reazione dell’ordinamento solamente qualora abbia voluto l’evento lesivo o l’abbia causato con un comportamento comunque avvertito come biasimevole. La mancata accettazione dell’evento genera la percezione della pena come irragionevole ed ingiusta e paralizza la finalità rieducativa per il semplice motivo che il reo non si sottoporrà a tale trattamento, stante il fatto che egli si sentirà incolpevole rispetto all’accaduto.

La Consulta, con la fondamentale sentenza n. 364 del 1988, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. La sentenza in questione ha tuttavia trasceso l’ambito di riferimento, toccando un ambito più esteso, quale è quello della sussistenza delle ipotesi di responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento.

La Corte Costituzionale insegna che il criterio d’imputazione soggettiva del fatto al suo autore è un elemento imprescindibile della responsabilità penale; per la punibilità di un soggetto non è sufficiente il mero nesso di causalità,  gli elementi che generano o accrescono l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice devono essere sostenuti almeno dalla colpa. 

Questo principio ha avuto delle ripercussioni enormi nell’intero ordinamento penale, perché si è tradotto nell’esigenza di rivedere tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nella legge penale alla luce del principio di colpevolezza, ed esigere che il soggetto si trovi almeno in colpa rispetto all’evento. Ogni qualvolta si leggeranno norme nelle quali il legislatore ha omesso la considerazione per l’elemento soggettivo, il tenore letterale della norma dovrà subire un’aggiunta del tipo “quando alla condotta del soggetto consegua l’evento X il soggetto sarà punito se l’evento era da lui in concreto prevedibile”. Il concetto di prevedibilità in concreto ci aiuta a leggere tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva abbinando alle stesse l’elemento soggettivo della colpa, questo in quanto la colpa si fonda proprio sulla previsione/prevedibilità dell’evento come conseguenza della propria condotta.

Fattispecie sulle quali si discute se si tratti di responsabilità oggettiva o di responsabilità per colpa sono quelle del delitto preterintenzionale e quella dei delitti aggravati dall’evento (che parte della dottrina riconduce, peraltro, nell’alveo dei delitti preterintenzionali).

Secondo l’art. 43 c.p., il delitto è preterintenzionale o oltre l’intenzione quando l’evento dannoso o pericoloso è più grave di quello voluto dall’agente come conseguenza della propria azione od omissione. Esistono due tipi di delitto preterintenzionale nel nostro ordinamento penale: l’omicidio preterintenzionale e l’aborto preterintenzionale.

Quanto alla natura dell’elemento soggettivo, parte della dottrina ritiene che si debba sdoppiare tale elemento soggettivo in due frangenti, di cui uno che sostiene la condotta voluta (compimento di atti diretti a ledere o percuotere) e uno che contempla il momento successivo, e cioè l’evento più grave verificatosi in concreto. Il primo frangente sarebbe coperto dal dolo mentre il secondo (l’evento) sarebbe addossato obbiettivamente in base al mero nesso di causalità, cioè in base al mero essere conseguenza della condotta dell’agente. Altra parte della dottrina ritiene invece che mentre il primo momento è coperto dal dolo, il secondo sarebbe coperto dalla colpa.

Si noti tuttavia, a quest’ultimo riguardo, come la colpa, per sua natura, si fondi sulla violazione di una regola di diligenza. Ci si chiede dunque nel caso concreto quale sia la norma precauzionale violata. V’è chi dice che la norma di diligenza sia da rintracciare nelle stesse norme incriminatrici dei reati di percosse e lesioni. Autori più attenti ritengono però che accettando una siffatta tesi si cadrebbe nel paradosso di accettare che le norme incriminatrici nello stesso tempo incriminino una condotta e la autorizzino a patto che il soggetto agente, in maniera diligente nel compiere il reato, non vada oltre quella fattispecie e non sfoci in un evento più grave di quello intenzionale ( “Non commettere i reati di percosse o lesioni, ma se decidi di farlo fallo bene!”).

 Altra dottrina autorevole ritiene che vi sia un errore di fondo nella bipartizione dei momenti, e che l’azione debba considerarsi unica. L’evento più grave sarà addebitabile al soggetto agente qualora venga verificato che egli ha previsto o poteva prevedere tale esito – come conseguenza tipica, probabile della sua condotta – sulla base delle caratteristiche e modalità dell’azione nonché sulla base delle condizioni del soggetto passivo.

La norma penale, invero, non può interpretarsi se non a partire dalla pena prevista. La pena prevista per questi delitti, intermedia fra quella dei reati dolosi e quella prevista per i reati colposi (aggravati dalla previsione dell’evento, c.d. colpa cosciente), è – a ben vedere – più prossima alla pena stabilita per i delitti dolosi. La preterintenzione va quindi intesa come una forma di responsabilità per l’evento non voluto meno grave del dolo, ma molto più grave della colpa.

Venendo ai reati aggravati dall’evento, trattasi di quelle condotte incriminatrici cui viene irrogata una pena superiore nel caso in cui, da quella condotta già ab origine punita, derivi un evento ulteriore. E’ il caso del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli p. e p. dall’art. 572 c.p., che viene punito con la reclusione da uno a cinque anni, ma se si verificano lesioni o la morte del soggetto maltrattato la pena aumenta nel minimo e nel massimo fino a raggiungere i 20 anni (in caso di morte, appunto).

Anche tali ipotesi normative erano inserite nell’ambito della responsabilità oggettiva, presentando ora la necessità di essere adeguate al parametro della colpevolezza, che come abbiamo detto richiede che ogni elemento che costituisce o aggrava l’offesa a beni giuridici del soggetto passivo deve essere coperto almeno dalla colpa. Ineludibile, quindi, il ricorso al principio della prevedibilità, già più volte citato in questi paragrafi. Il soggetto agente, volendo rapportarci all’esempio prima fatto, verrà ritenuto responsabile per la lesione o la morte solo quando fosse in concreto prevedibile che la condotta base avrebbe potuto aggravarsi raggiungendo tale stadio ulteriore.

Vi sono ipotesi in cui l’evento non voluto è costituito come circostanza aggravante del delitto realizzato. Così, il delitto di omissione di soccorso  p. e p. dall’art. 593 c.p e il comma 2 dell’art. 572 c.p. sopra citato; e vi sono ipotesi in cui l’evento ulteriore è costitutivo di un delitto autonomo. Una rilevanza di questa differenza è che le circostanze del reato sono applicate secondo il giudizio di comparazione o bilanciamento.

L’art. 586 c.p. – rubr. morte o lesioni come conseguenza di altro delitto prevede che “quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”. La norma in questione si applica quando la morte o le lesioni sono conseguenze di un altro delitto che si è perfezionato. Ciò significa che il soggetto agente commette un delitto per il quale egli risulterà già di per sé punibile. La conseguenza viene definita “non voluta”; ciò non significa altro che la morte o la lesione non devono essere dolose, altrimenti si applicheranno le norme di omicidio doloso lesioni dolose. 

Inoltre l’art. 586 dispone che si applichino le regole dell’articolo 83. L’articolo 83 ci dice che, nel caso in cui un soggetto per errore nell’esecuzione del reato o per altra causa generi un evento difforme da quello voluto, sarà punito a titolo di colpa. Il problema, prima della sentenza del 1988 della Corte Costituzionale era tutto qui, e consisteva nel fatto che l’inciso “a titolo di colpa” era da intendersi come “come se fosse colposo”. Quindi, poiché l’articolo 83 forniva una fattispecie di responsabilità oggettiva ed integrava l’articolo 586, rendeva anche quest’ultimo un’ipotesi di responsabilità oggettiva.

Attualmente questo problema è da ritenersi superato, dovendosi effettivamente verificare la colpa come previsione/prevedibilità in concreto dell’evento difforme. Ne consegue che la norma è applicabile quando un soggetto agente commette un delitto e ha in concreto previsto (o poteva prevedere) che da quel delitto sarebbe scaturita come conseguenza la morte o la lesione. Allo stesso tempo il soggetto agente non deve aver voluto tali eventi ulteriori, altrimenti sarà punito a titolo di omicidio doloso o lesioni dolose. Stanti i presupposti appena citati, l’agente sarà punito secondo le regole del concorso formale tra reato-base e omicidio colposo o lesioni colpose, le cui pene (quelle dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose) saranno aumentate fino ad un terzo.

I due casi più rilevanti di applicazione dell’articolo di cui all’oggetto sono quelli del suicidio a seguito di un delitto (ad esempio le violenze sessuali ripetute, lo stalking, le molestie, le estorsioni, ecc) e quello della morte del consumatore dopo l’acquisto della dose personale di stupefacente ed il suo utilizzo. Nel primo caso, la Cassazione penale ha stabilito che l’evento morte potrà essere addossato all’autore del reato-base quando per le modalità della condotta ad esso relative, per le condizioni socio-economiche, e per quelle personali e psichiche del soggetto passivo era in concreto prevedibile che l’azione criminosa fosse idonea a porre la vittima dinanzi alla drammatica scelta tra un’esistenza intollerabile e il suicidio. Nel caso della morte del consumatore, prima citato, deve adottarsi lo stesso criterio, cioè quello della prevedibilità in concreto della morte. Lo spacciatore che venda una quantità di sostanza stupefacente ad un acquirente risponderà della morte di quest’ultimo se, per le circostanze concrete (oggettive, ad esempio inerenti alla qualità o al taglio della merce; soggettive, ad esempio le visibili condizioni di salute del soggetto passivo, la sua età, ecc.) poteva prevedere che alla sua condotta in re ipsa illecita sarebbe potuto seguire l’evento morte del consumatore.

L’art. 57 c.p., nella sua versione originaria, disponeva che, qualora un reato fosse stato commesso a mezzo stampa, fatta salva la responsabilità dell’autore diretto dell’articolo, il direttore o il vice-direttore “per ciò solo” sarebbero stati ritenuti responsabili dell’accaduto in concorso con l’autore stesso. Si trattava quindi di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, addossata solo per il fatto che fosse accaduto l’evento fatto illecito dell’articolista.

Con la l. 127/1958 la norma è stata modificata, prescrivendo la responsabilità a titolo di colpa di tali soggetti apicali solo in caso di omissione di controllo sull’altrui operato. La colpa va accertata in concreto come culpa in vigilando, potendosi così inquadrare il reato ascritto alle suddette persone nella tipologia del concorso omissivo colposo in reato commissivo (normalmente) doloso, almeno nella forma del dolo eventuale.

Il controllo richiesto è un controllo sulla credibilità e attendibilità delle fonti usate dall’articolista, senza che possa tradursi in un controllo nella verità della notizia o in una supervisione durante l’attività di scrittura dell’articolo. La rimproverabilità del direttore (o del vice-direttore) sarà via via più tenue quanto più è complessa la struttura organizzativa dell’azienda giornalistica, poiché la difficoltà nel controllo sull’altrui operato diverrebbe eccessivamente capillare.

In tema di responsabilità penale oggettiva, vanno altresì menzionate le condizioni obbiettive di punibilità, disciplinate dall’art. 44, il quale dispone che quando la legge subordina la punibilità di un reato al verificarsi di una condizione, il soggetto è punito per il compimento del reato anche se l’evento oggetto della condizione si verifica per causa a lui non imputabile soggettivamente.

La condizione interviene quindi dopo che il reato è già perfetto in tutti i suoi elementi, e opera solo sulla punibilità del reo. E’ anche importante ai fini del decorso del termine di prescrizione, il quale comincia con l’evento che sta alla base della condizione, e non col precedente perfezionamento del reato.

Prima della sentenza 364/88, le condizioni obbiettive di punibilità rappresentavano, come dice il loro nome, una ipotesi di responsabilità obbiettiva. Attualmente, pur essendo intervenuta tale sentenza, che potrebbe farci propendere per un totale adeguamento di tali condizioni al principio di colpevolezza, è doveroso ripartire le condizioni obbiettive di punibilità in due categorie: le condizioni intrinseche e le condizioni estrinseche. 

Le condizioni intrinseche (ad es., il nocumento a seguito di rivelazione di segreto professionale) sono basate su eventi che, se si verificano, approfondiscono l’offesa al bene giuridico di riferimento. Quelle estrinseche (ad es., il pubblico scandalo nel reato di incesto) non hanno questo effetto e sono eventi che, inseriti nella norma incriminatrice, proteggono interessi contingenti esterni alla tutela del bene giuridico del soggetto passivo. Adottando il criterio disposto dalla Consulta (ogni elemento che costituisce o approfondisce l’offesa al bene giuridico tutelando deve essere coperto almeno da colpa ), si dovranno considerare le condizioni estrinseche come le uniche ipotesi di responsabilità oggettiva sopravvissuta nel nostro ordinamento a seguito della sentenza predetta, mentre per quelle intrinseche dovrà adottarsi il normale criterio della previsione/prevedibilità, in modo da richiedere che esse siano legate psichicamente, oltre che obbiettivamente, alla condotta dell’autore del reato.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.