C. Cost. 32/2014 e riserva di legge. Sospetta Incostituzionalità della pena minima edittale ex art. 73 comma 1 T.U. Stupefacenti

Con ordinanza del 13 dicembre 2016, n. 1418, depositata lo scorso 12 gennaio, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 25, 3 e 27 Cost., dell’art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede – a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 – la pena minima edittale di anni otto di reclusione anziché quella di sei anni introdotta dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni in L. 21 febbraio 2006, n. 49 (Legge Fini Giovanardi).

La declaratoria d’incostituzionalità degli artt. 4 bis e 4 vicies ter D.L. 272/2005 si è, infatti, tradotta – dal punto di vista sanzionatorio – nella (re-)introduzione di un trattamento:

  • più mite – rispetto a quello caducato – per le condotte aventi ad oggetto le droghe leggere;
  • più severo, viceversa, per le condotte aventi ad oggetto le droghe pesanti, atteso l’innalzamento del minimo edittale in epigrafe evidenziato.

Ebbene, detto inasprimento sanzionatorio si porrebbe, a giudizio del Giudice remittente, in contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost. , laddove sancisce il principio di riserva di legge in materia penale.

Detto principio autorizza, infatti, il solo Legislatore, quale organo dotato della massima legittimazione democratica, ad effettuare interventi in materia penale che abbiano l’effetto di ampliare l’operatività di una fattispecie incriminatrice, ovvero di inasprire le pene già comminate.

Naturale interrogarsi, a questo punto, circa l’ammissibilità delle sentenze in malam partem della Corte Costituzionale. Sono tali le pronunce con cui la Consulta produce effetti sfavorevoli in ambito penale.

Pur non essendo precluso tout court lo scrutinio di costituzionalità che produca effetti in malam partem, le sentenze in questione devono reputarsi inammissibili ogniqualvolta sottendano scelte di politica criminale, riservate – come già detto – al solo Legislatore parlamentare.

Sul punto, occorre infatti distinguere tra norme penali di favore in senso stretto, che possono essere oggetto di una pronuncia d’incostituzionalità in malam partem, e norme penali di favore a carattere comune o generale, di contro precluse.

Sono norme penali di favore in senso stretto quelle che sottraggono una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di un’altra norma, maggiormente comprensiva, risolvendosi nella configurazione di un trattamento privilegiato per una categoria di persone o per alcune condotte, esonerandole da sanzione o comunque assoggettandole ad una risposta sanzionatoria più benevola.

Sono, invece, norme penali di favore a carattere generale o comune quelle che realizzano un effetto favorevole, mediante la restrizione dell’area del penalmente rilevante o della punilibità, o mediante l’introduzione di una causa di giustificazione, ovvero – ancora – quelle che incidono sulla risposta punitiva già comminata, mitigandola.

Le norme di favore da ultimo citate sono, con ogni evidenza, il frutto di una precisa scelta politico-criminale in termini di meritevolezza ovvero di bisogno di pena.

Si comprende allora la ragione per cui non possa ritenersi consentito che una sentenza d’incostituzionalità in malam partem interessi una norma con cui il Legislatore ha inteso modificare la risposta sanzionatoria in senso favorevole al reo, in virtù di una valutazione di politica criminale tesa ad assicurare l’applicazione di una pena più adeguata al caso di specie (e tale va, senza dubbio, considerata la norma contenuta nel testo del comma 1 dell’art. 73).

Ciò neanche nel caso in cui la norma sia frutto di un procedimento di formazione legislativa viziato, per contrasto con l’art. 77, comma 2, Cost.,

Detto vizio procedurale non può che soccombere, all’esito di un giudizio di bilanciamento, di fronte al più pregnante principio di riserva di legge in materia penale, per il diretto riflesso che esso riverbera sulle libertà fondamentali della generalità dei consociati.

A maggior ragione, se oggetto della pronuncia non sia una norma adottata extra delega dal Governo (della cui incostituzionalità non ci sarebbe stato, invero, nessun dubbio), ma una norma introdotta dal Parlamento, quale disposizione aggiuntiva rispetto a quelle presenti nel Decreto da convertire in Legge.

Ma non è tutto. Oltre che la violazione del più volte citato art. 25 comma 2 Cost., a parere del Giudice remittente il trattamento sanzionatorio contenuto all’art. 73 comma 1 difetterebbe di ragionevolezza e si porrebbe contra al principio di proporzionalità, riportabile al disposto di cui agli artt. 3 e 27 Cost.

L’irragionevolezza  – prosegue la Corte – emergerebbe dal raffronto con il trattamento stabilito al comma 4 e al comma 5 del medesimo art. 73, disciplinante ques’ultimo le ipotesi di lieve entità.

 A fronte del trattamento sanzionatorio unitario ivi previsto per le condotte c.d. “lievi”,  per le condotte “gravi” non solo non v’è unitarietà sanzionatoria, ma è addirittura previsto un dislivello edittale di ben due anni, potenzialmente foriero di ingiustificate disparità di trattamento.

Infatti, per le condotte aventi ad oggetto droghe leggere, la pena detentiva oscilla da due a sei anni di reclusione, mentre per quelle aventi ad oggetto droghe pesanti, la pena detentiva va da otto a vent’anni. Un dislivello che verrebbe meno allorchè fosse ripristinato il minimo edittale di sei anni di reclusione per l’ipotesi di cui all’art. 73, comma 1.

Per ciò che invece concerne la violazione del principio di proporzionalità, essa si rivela con chiarezza nel momento in cui – in presenza di fatti che presentino una non rilevante gravità, ma che tuttavia non possano inquadrarsi nella fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 – il decidente, pur indirizzandosi verso il minimo edittale, si trovi comunque costretto ad infliggere pene di entità eccessiva, che non sono in ragionevole rapporto con il disvalore della condotta.

Alla luce delle superiori argomentazioni, la Corte giunge a ritenere unica soluzione conforme ai parametri costituzionali degli artt. 25, comma 2, 3 e 27 Cost., quella del ripristino del trattamento sanzionatorio già introdotto nel 2006, pur mostrandosi conscia delle problematiche che una tale soluzione comporterebbe, con riguardo ai fatti commessi e giudicati nell’intervallo fra la sentenza n. 32/2014 e l’eventuale decisione in tal senso del Giudice costituzionale.

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Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.