Stati emotivi e passionali: inidonei a influire sull’imputabilità. E sulla pena?

La problematica relativa all’incidenza degli stati emotivi e passionali nel sistema della giustizia penale è tornato all’attenzione degli interpreti, a seguito del grande clamore mediatico suscitato dalla sentenza n. 29/2018 della Corte d’Assise d’Appello di Bologna, depositata lo scorso 8 febbraio 2019.

All’esito del giudizio abbreviato l’imputato veniva condannato dal GUP del Tribunale di Rimini alla pena di 30 anni di reclusione per omicidio aggravato dai motivi abietti e futili, per avere ucciso mediante strangolamento la donna con cui lo stesso intratteneva una relazione sentimentale dall’incirca un mese, a seguito di un eccesso emotivo, dovuto all’insicurezza e alla gelosia scaturita dalla lettura di alcuni SMS che la donna aveva ricevuto da parte di alcuni uomini. Uccisa la donna, l’imputato era tornato nella propria abitazione e lì aveva effettuato un idoneo tentativo di suicidio.

L’imputato era stato sottoposto dal GUP a perizia medico psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Dagli accertamenti svolti, emergeva un passato di problematiche relazioni sentimentali (l’imputato era stato tradito dalla moglie e successivamente anche da una seconda compagna, con la quale aveva anche convissuto); e che già nel 2014 l’imputato aveva posto in essere un tentativo di suicidio, gesto che era stato collegato alla rottura della relazione con la precedente compagna. In quella circostanza Cataldo era stato ricoverato in un reparto psichiatrico ospedaliero e anche sottoposto ad un TSO. La diagnosi alla dimissione dall’ospedale era stata di “disturbi di personalità non specificati, intossicazione alcolica idiosincratica e disturbo dell’adattamento con umore depresso“.

Anche il perito nominato dal GUP concludeva che l’imputato non presentava patologie psichiatriche strutturali né chiari segni di disturbo della personalità; il gesto omicida – concludeva il perito – era frutto di uno stato d’animo turbato, tormentato dal dubbio, provato dalle precedenti esperienze di vita e sfociato in una reazione rabbiosa ma, al di là di questa “soverchiante tempesta emotiva e passionale“, non veniva individuata nell’imputato alcuna alterazione rilevante in termini di psicopatologia ai fini della capacità di intendere e di volere.

La Corte di appello di Bologna, nel giudizio d’impugnazione, confermava la penale responsabilità dell’imputato per omicidio aggravato dalle circostanze abbiette o futili, ma riteneva altresì di concedere all’imputato un’attenuazione della pena ai sensi dell’art. 62 bis c.p.p.

Diversamente da quanto ritenuto dal GUP, il giudice di secondo grado attribuisce rilievo alla confessione dell’imputato. E ciò “non tanto per quanto riguarda l’ammissione di responsabilità, posto che effettivamente, come osservato dal primo giudice, una volta scoperto il cadavere gli investigatori sarebbero facilmente giunti ad individuare nell’imputato il responsabile dell’omicidio, quanto perché fu lo stesso a fornire, sostanzialmente, la prova dell’aggravante dei motivi abietti e futili, che verosimilmente non sarebbe stata contestata se egli non avesse parlato della sua gelosia e delle discussioni nell’ultimo fatale incontro”.

Il sentimento di gelosia e turbamento conseguente alla fine della relazione affettiva, prosegue la Corte, pur essendo “immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come una soverchiante tempesta emotiva e passionale, che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”.

Vi è, infine, anche la circostanza relativa al tentativo di risarcimento, effettuato dall’imputato nei confronti della figlia della vittima, che deve essere valutata ai fini della decisione sul punto, atteso che “tale comportamento lascia intravedere una presa di coscienza dell’enormità dell’azione compiuta”.

Analizzando la così tanto criticata decisione in oggetto, emerge allora come, invero, la Corte abbia aderito a quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui,  “gli stati emotivi o passionali, pur non escludendo né diminuendo l’imputabilità, possono comunque  essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto essi influiscono sulla misura della responsabilità penale” (v. Cass. Pen., Sez. I, 5 aprile 2013, n. 7272 ; Cass. Pen., Sez. I, 29 gennaio 2018, n. 4149;  Cass. Pen., Sez. I, 5 febbraio 2018, n. 5299; o ancora,Cass. Pen., Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 27932).

Per altro verso, la concessione delle attenuanti generiche non deriva esclusivamente dal turbamento emotivo (forse, anzi, trascurabile), ma dal concorso di due ulteriori elementi: la confessione dell’imputato e il suo tentativo di risarcimento.

Il riferimento alla confessione dell’imputato e al suo tentativo di risarcimento sarebbe presumibilmente stato sufficiente per giustificare la concessione delle attenuanti generiche; tuttavia, la Corte, spingendosi oltre fino a ricomprendere a oggetto di valutazione anche il turbamento emotivo, sembrerebbe aver effettuato una apparentemente contraddittoria valutazione dello stato di alterazione emotiva derivante dalla gelosia.

Ma a ben vedere, la reazione impulsiva dell’imputato è stata addebitata a tre diversi moventi; oltre all’immotivata gelosia per i messaggi ricevuti dalla vittima, ad agire sull’imputato è stato altresì il timore per la fine della relazione e l’insicurezza e la fragilità da egli rivestita dinanzi alla quale la vittima si era mostrata insofferente. E sarebbero, a una lettura attenta della decisione, questi ultimi due fattori che la Corte ha preso in considerazione per operare l’intervento dosimetrico sulla pena.

Se ne deduce, a parere di chi scrive, che esagerate e disancorate all’esame di tutte le emersioni processuali, sono state le polemiche che hanno accompagnato la diffusione della decisione assunta dalla Corte. Ed appare altresì improbabile che tale decisione possa indurre le paventate conseguente negative in relazione al fenomeno di contrasto della violenza contro le donne.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.