Successione delle leggi penali nel tempo: divieto di retroazione sfavorevole

Il terzo corollario del principio di legalità è costituito dal divieto di retroazione sfavorevole (nullum crimen, nulla poena sine proevia lege poenali), principio cardine nell’ambito della disciplina sulla successione delle leggi penali nel tempo; esso dispone che la legge penale si applichi solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore.

Il fondamento di tale principio si sostanzia nell’esigenza di garantire il cittadino dall’incriminazione e dall’assoggettamento ad una pena prevista da una legge entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto; al principio di irretroattività, che costituisce il completamento logico dei principi di riserva di legge e tassatività, è sottesa la stessa ratio di garanzia del favor libertatis del cittadino, il quale deve essere posto nelle condizioni di poter calcolare le conseguenze penali che la legge fa derivare dalla sua condotta, nel momento in cui la pone in essere.

Volgendo lo sguardo al rapporto tra le disposizioni costituzionali e le norme codicistiche,  l’art. 25 comma 2 Cost. sancisce l’irretroattività delle norme penali sopravvenute sfavorevoli al reo, quale corollario del principio di legalità. In forza di tale disposizione costituzionale, le norme incriminatrici possono trovare applicazione solo con riferimento a fatti accaduti dopo la loro entrata in vigore, non potendo le stesse retroagire per punire comportamenti che, nel momento in cui sono stati tenuti, non costituivano reato.

Il principio di irretroattività invero, deve essere inteso in senso relativo, nel senso della irretroattività della legge sfavorevole e di retroattività della legge favorevole.

Si è cioè inteso limitare il divieto di retroazione alla sola legge sfavorevole, e sulla base dell’interpretazione dell’articolo 3 della Costituzione,  in omaggio al quale sarebbe discriminatorio ed irragionevole continuare ad applicare un certo trattamento sanzionatorio ad un fatto che, in base ad una mutata coscienza sociale la legge sanziona in modo più mite o considera penalmente lecito.

La dottrina prevalente, sulla base anche di una giurisprudenza orientata a porre il principio della retroattività della lex mitior a livelli primari, ne individua la relativa tutela costituzionale nel canone di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Si ritiene, infatti, come sia discriminatorio punire in maniera differenziata soggetti responsabili della medesima violazione soltanto in ragione della diversa data di commissione del reato o che, a causa del diverso tempus regit actum, uno di tali soggetti continui a essere punito mentre l’altro si sottragga a qualsiasi sanzione penale.

Il principio della retroattività della lex mitior è stato elevato a principio fondamentale anche dai Giudici di Strasburgo, i quali ne rinvengono il fondamento implicito nell’art. 7 CEDU. Nella sentenza del 17 settembre 2009 (Scoppola c. Italia) la Corte EDU ha affermato infatti che “l’art. 7, par. 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa” e che, dunque, “se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”.

Tale riconduzione non è evidentemente senza conseguenze sul piano del diritto costituzionale italiano, spalancando la possibilità di invocare altresì l’art. 117 co. 1 Cost. a fondamento del principio in parola, il quale stabilisce che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Al pari della Costituzione, anche il codice penale afferma il principio di irretroattività sfavorevole delle norme penali. All’art. 2, comma 1, c.p. infatti, ribadisce il principio costituzionale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., ma nei commi successivi afferma l’ulteriore principio di retroattività delle norme penali sopravvenute che siano favorevoli al reo, con l’ulteriore precisazione che, se vi è stata condanna per un fatto commesso nell’epoca di vigenza della norma sfavorevole, cessano gli effetti penali della medesima.

In particolare, il comma 2 della disposizione in questione ha riguardo specifico all’abolizione di norme incriminatrici, ovvero ai fatti che, per effetto di una legge posteriore, non costituiscano più reato; il comma 3, invece, si sofferma sulla pena applicata, sancendo il principio per cui se la legge posteriore disponga la pena pecuniaria, in luogo della pena detentiva prevista per un determinato reato al momento della sua commissione, quest’ultima si converte nella pena pecuniaria ai sensi della norma sopravvenuta; infine, il comma 4 afferma il generale principio per cui, se la legge vigente al momento del fatto e la legge posteriore siano diverse, si applica la legge più favorevole al reo, salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile.

Proprio all’interno di quanto statuito al comma 4, nella parte in cui prevede che l’intervento di una sentenza irrevocabile di condanna non permetta l’applicazione della disciplina favorevole sopravvenuta, è contenuto il riferimento al principio di intangibilità del giudicato, secondo cui la decisione contenuta nella sentenza non può più essere messa in discussione una volta che la stessa sia passata in giudicato, secondo un’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici.

Si tratta di un principio avente valore non assoluto, ma relativo, come si desume anche dallo stesso art. 2 c.p. che, ai commi 2 e 3, ne ammette la deroga nel caso in cui sia intervenuta una disposizione abolitiva del reato ovvero una disposizione che commuti la pena detentiva in pena pecuniaria.

Ulteriore deroga al principio di intangibilità del giudicato si riscontra nell’art. 673 c.p.p., che prevede la possibilità per il giudice dell’esecuzione di revocare il giudicato e, pertanto, dichiarare cessati gli effetti penali della condanna non soltanto nell’ipotesi di sopravvenuta norma abolitiva del reato, ma anche nell’ipotesi in cui sia intervenuta la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.

Infine, guardando al fenomeno della successione nel tempo delle leggi processuali penali, deve evidenziarsi come non trovi applicazione l’art 2 c.p., bensì dell’art 11 preleggi, in forza del quale la legge non dispone che per l’avvenire (noto principio del tempus regit actum); essa non ha effetto retroattivo.

Gli atti processuali trovano dunque la loro fonte di disciplina nella norma processuale vigente nel momento in cui l’atto deve essere adottato, a nulla rilevando l’ipotesi che, nel momento in cui è stato commesso il fatto criminoso, vigesse una norma processuale più favorevole al reo. In tale evenienza, proprio perché si è al cospetto di una norma processuale (e non sostanziale) non troverà applicazione il principio di retroattività della norma più favorevole al reo.

Talvolta, però, per l’interprete non è agevole individuare la natura sostanziale o processuale dell’istituto oggetto d’indagine. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla recidiva, alla prescrizione, alla custodia cautelare in carcere, alla confisca.

La Corte di Strasburgo, in diverse occasioni, non ha mancato di rilevare come, ai fini dell’inquadramento della natura giuridica di un istituto, non debba rilevare in modo particolare la nomenclatura formale attribuita al medesimo, quanto, piuttosto, la portata sostanzialistica dello stesso, ovvero l’eventuale essenza afflittiva e punitiva che esso sprigiona.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.