Rimessione alle SU: la condotta dello sviamento di potere configura il reato di accesso abusivo ex art. 615 ter c.p., comma 2?

Con ordinanza n. 12264/2017, la quinta Sezione della Corte di legittimità ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione di diritto:

«se il delitto previsto dall’art. 615 ter, comma 2, n. 1 cod. pen., sia integrato anche dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, pur formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informatico o telematico, ponga in essere una condotta che concreti uno sviamento di potere, in quanto mirante al raggiungimento di un fine non istituzionale, e se, quindi, detta condotta, pur in assenza di violazione di specifiche disposizioni regolamentari ed organizzative, possa integrare l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri previsti dall’art. 615 ter, comma secondo, n. 1 cod. pen.».

La Corte ritiene, infatti, di doversi discostare dal dictum delle Sezioni Unite, espresso in sentenza n. 4649 del 27/10/2011, dep. il 07/02/2012, con cui è stato affermato, come è noto, che “Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen. colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema”.

Non appare, infatti, revocabile in dubbio che la norma di cui all’art. 615 ter cod. pen., tuteli interessi molteplici e variegati, rilevanti non solo a livello patrimoniale – come il diritto all’uso indisturbato dell’elaboratore per perseguire fini di carattere economico e produttivo – ma anche a livello pubblicistico – quali il diritto alla riservatezza, i diritti afferenti alla sfera militare, sanitaria, quelli inerenti all’ordine pubblico ed alla sicurezza e, tra essi, anche quello al corretto funzionamento dell’amministrazione giudiziaria.

Risulta, pertanto, necessario interrogarsi sul se una interpretazione della norma che faccia coincidere il concetto di autorizzazione unicamente con il rispetto di norme regolamentari ovvero di tipo organizzativo, ritenendo, al contrario, irrilevante la condotta di chi violi – pur attenendosi formalmente alle norme regolamentari specifiche – doveri ben più rilevanti – quali quelli funzionali alla tutela dei predetti interessi pubblicistici (ad esempio: il dovere di fedeltà e di regolarità dell’azione amministrativa cui sono tenuti i pubblici dipendenti), non sia irragionevole dal punto di vista interpretativo, lasciando prive di sanzioni tutte quelle condotte formalmente osservanti di regole e prassi operative ma che, nel concreto, costituiscono un vero e proprio abuso o eccesso di potere.

Va, infatti, rilevato che l’uso delle informazioni acquisite di fatto dall’agente – che rappresenta certamente un elemento estraneo alla fattispecie, inidoneo a delimitarne la portata e, al più, idoneo ad integrare una distinta ipotesi criminosa – è sicuramente concetto diverso dalla finalità che determina l’agente stesso; quest’ultima, infatti, può sicuramente apparire rivelatrice del superamento dei limiti dell’autorizzazione all’accesso al sistema, manifestando un vero e proprio eccesso di potere o sviamento di potere, e, quindi, costituire elemento rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie.

In generale, infatti, la finalità della condotta, intesa come movente di qualsiasi azione umana, sicuramente non rientra nella struttura del reato, tutte le volte in cui non sia richiesto un dolo specifico per la integrazione della fattispecie; nondimeno essa può apparire illuminante ai fini della valutazione della illiceità della condotta stessa. Sotto detto aspetto, quindi, appare necessario distinguere la finalità della condotta, così come essa viene rivelata dalla commissione di una ulteriore attività, integrante una diversa ed autonoma fattispecie di reato, che, in realtà coincide con l’uso che l’agente fa delle informazioni acquisite all’esito dell’accesso abusivo nel sistema informatico, da tenere distinta dalla finalità della condotta rivelata dalle specifiche modalità dell’azione..

D’altra parte non può dimenticarsi come la previsione dell’art. 615 ter c.p., comma 2, individui la sussistenza di una circostanza aggravante rispetto alla previsione generale, che è caratterizzata non solo dalla qualità soggettiva dell’agente – pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – ma anche dall’abuso dei poteri.

Il concetto stesso di abuso di potere, infatti, evoca l’uso di un potere che, attribuito al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per determinate finalità individuate dalla legge, venga esercitato in maniera non coerente con le predette finalità, ossia si risolva in un eccesso o in uno sviamento nell’esercizio del potere stesso.

Appare evidente che il legislatore, nel delineare i caratteri salienti della condotta di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, abbia inteso chiaramente perseguire sia le condotte che si traducano un una palese violazione di un dovere – ossia una condotta che si manifesta ex se illecita nel momento in cui viene posta in essere, la sua stessa attuazione costituendo la violazione di un preciso dovere comportamentale rispetto al quale essa si pone in aperta e diretta violazione – sia le condotte che, formalmente in linea con i poteri attribuiti all’agente, costituiscano, tuttavia, un eccesso o uno sviamento del potere stesso, in quanto la loro manifestazione non risulta coerente con l’interesse pubblico per il raggiungimento del quale l’accesso al sistema è stato autorizzato; dette ultime condotte, infatti, appaiono addirittura più insidiose, oltre che altrettanto lesive, rispetto a quelle attuate in palese violazione di un dovere.

Scarica il testo dell’ordinanza: Ordinanza-12264-2017-accesso-abusivo-615-ter-c.p.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.