In tema di abuso d’ufficio, la prova dell’intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento “non iure” osservato dall’ agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva “ratio” ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
A tal fine la prova del dolo intenzionale può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l’evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell’agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l’intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge. (conforme Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016 – dep. 29/08/2016, Cella, Rv. 26763301).
Deve, inoltre, puntualizzarsi che la intenzionalità non vuol dire esclusività del fine che anima l’agente, e ciò anche secondo una recente interpretazione che ha affermato la tipicità del reato anche nei casi in cui al fine di vantaggio privato si affianchi una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o un pretesto per coprire la condotta illecita (in tal senso, Sez. 3, n. 18895 del 24/02/2011, Cesaroni, Rv. 250374; Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280; Sez. 6, n. 7384 del 19/12/2011, dep. 2012, Porcari, Rv. 252498; Corte Cost., ord. n. 251 del 2006).