Le cause di giustificazione del reato. Scriminanti putative, tipiche e tacite

Le cause di giustificazione del reato ( c.d. scriminanti) sono particolari condizioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti costituirebbe reato, non acquista tale natura perché la legge lo impone o consente.

Sebbene il codice ricomprenda l’istituto delle scriminanti tra le “cause di esclusione della pena”, esse rappresentano una categoria autonoma destinata a ricomprende tanto le scriminanti comuni di cui agli artt. 50-54 c.p., quanto quelle previste da singole fattispecie della parte speciale del codice o di leggi speciali (scriminanti speciali).

Il fondamento politico-istituzionale delle scriminanti è diversamente individuato. Secondo il modello monistico, esse sarebbero ispirate all’unico principio del bilanciamento tra interessi contrapposti. Secondo quello pluralistico, ogni scriminante ha una propria ratio: quella dell’interesse riconosciuto prevalente all’esito di una valutazione comparativa degli interessi in conflitto o quello dell’interesse mancante o equivalente, che riguarda – invero – la sola scriminante del consenso dell’avente diritto, che opera qualora venga meno un interesse da tutelare per effetto della rinuncia alla conservazione del bene da parte del rispettivo titolare.

Dal punto di visto logico-giuridico, le scriminanti rispondono invece al principio di non contraddizione, in quanto uno stesso ordinamento non può al tempo stesso autorizzare e vietare uno stesso fatto senza cadere in contraddizione.

Quanto alla collocazione dogmatica delle scriminanti, essa muta profondamente a seconda che si aderisca alla tesi della bipartizione o tripartizione degli elementi del reato. Secondo la teoria della bipartizione, le scriminanti sono elementi negativi del fatto, costitutivi del medesimo. Secondo la teoria della tripartizione invece, esse non costituiscono un elemento costitutivo del fatto, ma rappresentano piuttosto l’oggetto di uno dei tre momenti logici dell’accertamento dell’illecito penale (fatto, colpevolezza e… antigiuridicità).

Le implicazioni derivanti dall’adesione all’una o all’altra tesi sono rilevanti. Riguardo la formula di proscioglimento ad es., aderendo alla teoria della bipartizione, ove venga accertata la sussistenza di una scriminante, dovrebbe adottarsi quella “perché il fatto non sussiste” con effetti favorevoli per l’imputato anche nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno. Diversamente, si adotterà “perché il fatto non costituisce reato”, che non esimerà l’imputato da eventuali risarcimenti  dei danni provocati.

Anche riguardo all’onere della prova rileva la suddetta distinzione, perché se concepita quale elemento tipico, l’antigiuridicità dovrà essere oggetto di prova da parte dell’accusa. Diversamente invece sarà l’imputato a dover fornire la prova di aver agito in presenza di una scriminante.

Infine, con riguardo all’ammissibilità del procedimento analogico in tema di scriminanti, se esse si considerano elementi tipici del fatto, atteso il principio di legalità, dovrà reputarsi inammissibile il ricorso al procedimento analogico per riconoscersi l’operare di una scriminante al di fuori dei limiti previsti dalla legge; ove invece si aderisse alla teoria della tripartizione del reato, potrebbe ritenersi ammissibile il ricorso a scriminanti non codificate per via analogica in bonam partem.

Prima di esaminare nel dettaglio le singole scriminanti comuni previste dal codice, giova ricostruire la disciplina generale cui esse sono sottoposte nel nostro ordinamento.

In presenza di una scriminante, il giudizio di liceità della condotta ha carattere oggettivo, prescindendo dall’atteggiamento psicologico dell’agente. Non è pertanto necessario che l’agente conosca l’esistenza dei presupposti per l’operare della scriminante. Il giudizio di liceità della condotta inoltre riguarda tutti coloro che abbiano concorso nella realizzazione del fatto (rilevanza oggettiva, art. 59, co. 1 c.p.).

Il legislatore ha attribuito rilevanza anche alla scriminante c.d. putativa (art. 59, co. 4 c.p.), equiparando la situazione di chi agisce confidando erroneamente, ma incolpevolmente, nell’esistenza di una scriminante, alla situazione in cui quest’ultima sia effettivamente sussistente. La disciplina dettata dall’art. 59 co. 4 appare simmetrica a quella dettata dall’art. 47 in tema di errore sul fatto; per avere efficacia scusante, quindi, l’errore deve essere incolpevole e deve cadere sui presupposti di fatto che integrano la scriminante o su una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificante.

La presenza di una scriminante putativa esclude il dolo. Pertanto la non punibilità dell’agente, in questo caso, non è tanto legata alla connotazione del fatto, che resta antigiuridico, quanto alla colpevolezza del suo autore. Tant’è vero che ove l’errore sia stato determinato da colpa, la punibilità non è esclusa quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.

L’eccesso colposo nelle cause di giustificazione

Quando nel commettere uno dei fatti preveduti dagli artt. 51,52,53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità o imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo (art. 55 c.p.).

Al di là del tenore letterale della norma, l’ipotesi di eccesso colposo è dai più ritenuta applicabile anche al consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p. e ad altre esimenti previsti da leggi complementari.

Le condizioni richieste dall’art. 55 c.p. per il ricorrere dell’eccesso colposo sono rappresentate: dalla presenza di tutti i presupposti delle scriminanti; dall’involontario, ma colposo, travalicamento dei limiti desumibili dalla norma permissiva; ed infine la punibilità del fatto anche a titolo di colpa, la quale andrà accertata ex art. 43 co. 1 c.p.

Quanto alle forme dell’eccesso colposo, si suole distinguere tra:

  • L’eccesso nel fine, che configura un errore-motivo, che ricorre quando l’agente si rappresenta erroneamente i limiti della scriminanti, superandoli;
  • L’eccesso nel mezzo, che configura un errore-inabilità, e che ricorre quando l’agente si è perfettamente rappresentato i limiti della scriminanti, ma per inabilità, concitazione o altra causa riguardante l’esecuzione, non riesce a contenere la propria condotta all’interno dei suddetti limiti.

Quanto alla natura giuridica dell’eccesso colposo, sebbene si sia parlato di colpa impropria, oggi prevale la tesi che trattasi di reati a struttura colposa in senso stretto.

L’errore colposo ex art. 55 differisce da quello che connota la scriminante putativa. Mentre nel primo caso l’errore comporta la violazione della regola di proporzione interna della scriminante, i suoi limiti; nel caso di una scriminante putativa l’errore investe l’intera scriminante, ritenuta a torto esistente. Ciò non toglie che possa comunque configurarsi un eccesso colposo nell’ipotesi di scriminante putativa.

L’eccesso incolpevole è invece posto in essere dall’autore al di fuori di ogni suitas psichica, sicché la condotta lesiva non potrà essere sussunta all’interno di una fattispecie punibile a titolo di colpa.

Passiamo adesso ad esaminare, singolarmente, le scriminanti comuni previste dal codice.

Il consenso dell’avente diritto

Esaminata la disciplina generale delle cause di giustificazione, si può adesso procedere alla disamina delle singole fattispecie, cominciando con il consenso dell’avente diritto previsto dall’art. 50 c.p. (“non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”).

Il fondamento della circostanza de qua si basa sulla carenza di un interesse da tutelare, allorchè il soggetto titolare del medesimo esprima il consenso alla sua lesione, e sempre che si tratti di un bene disponibile.

Quanto all’ambito di applicazione , la scriminante in parola non opera nei casi in cui il consenso/dissenso del titolare opera come un elemento costitutivo del reato medesimo (c.d. consenso improprio). Si veda ad. la fattispecie di violazione di domicilio, in cui la presenza del consenso esclude già sul piano strutturale la configurabilità della fattispecie.

Quanto all’oggetto del consenso, esso deve aver riguardo non solo alla condotta ma anche all’evento quale conseguenza di quella condotta, nonché a tutti i requisiti essenziali del tipo di reato.

Riguardo la natura giuridica del consenso, la dottrina prevalente lo qualifica quale atto giuridico, che produce l’unico effetto di escludere l’illiceità della condotta. Esso è revocabile in ogni tempo o comunque fino al momento in cui la condotta lesiva non sia iniziata o fin quando la condotta medesima non possa più essere utilmente arrestata.

Un’apparente lieve attenuazione del principio della revocabilità del consenso è stata espressa in una vicenda giudiziaria molto complessa e di grande risonanza pubblica (“il caso Muccioli”, afferente l’imputazione di sequestro di persona commesso in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità chiusa a programmi terapeutici).

In un primo tempo si era ritenuto che tale condotta fosse scriminata dal consenso anticipatamente prestato dal ricoverato all’atto d’ingresso della struttura, a condizione che la privazione della libertà non si protraesse oltre il tempo strettamente necessario al recupero del soggetto e  che il trattamento terapeutico non venisse attuato con modalità tali da ledere la dignità umana.

In realtà, tale tesi si scontra con la teoria del consenso come atto giuridico sempre revocabile anche da parte di un soggetto che non ha la piena capacità di intendere e di volere. Si è tuttavia osservato come la prosecuzione del programma potrà, in caso di revoca del consenso, al più far leva su altri tipi di scriminanti , quali l’adempimento del dovere o l’esercizio di un diritto. Al momento del suo ingresso in comunità infatti, il tossicodipendente concluderebbe un contratto col responsabile del centro, che assumerebbe così una posizione derivata di garanzia, un vero e proprio obbligo di tutela della salute del paziente. Il responsabile sarebbe quindi tenuto a persistere nel trattamento finchè la situazione di pericolo lo rende necessario, invocando a scriminare la sua condotta l’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p.

Tornando ai requisiti del consenso, esso deve essere attuale, libero, informato e specifico. Esso incontra poi una serie di limiti. Quanto ai limiti soggettivi, occorre che a prestarlo sia il titolare dell’interesse tutelato e che questi abbia la capacità di disporne; profilo quest’ultimo dibattuto, tra chi pretende la maggiore età del soggetto e coloro i quali invece ritengono necessario un accertamento caso per caso che vagli la sufficiente capacità del soggetto, salvo i casi in cui è lo stesso legislatore a fissare un’età minima. Molto ristretto sembra invece il campo operativo della rappresentanza volontaria, potendosi al più attribuire effetti scriminanti ad un consenso prestato da un soggetto che sia stato delegato nel campo patrimoniale; in ogni caso essa è da ritenersi ammissibile solo in casi eccezionali, quando il vantaggio sia certo e l’incapace non sia in grado di rendersi conto dell’opportunità a causa delle sue condizioni.

Quanto ai limiti oggettivi, il consenso non può essere prestato per tutti i diritti, ma solo per quelli disponibili, ossia solo per quei beni per i quali lo Stato non conserva un proprio peculiare interesse alla loro tutela. È possibile infatti distinguere tra diritti assolutamente disponibili, diritti relativamente disponibili e diritti assolutamente indisponibili. Questi ultimi sono quelli su cui il singolo non ha alcun potere decisionale e ricomprendono: i beni che appartengono allo Stato o ad altri enti pubblici; i beni della collettività indistinta; i beni della famiglia; il diritto alla vita. Sono invece relativamente disponibili: l’integrità fisica, come si desume dall’art. 5 c.c.; la libertà personale, l’onore e la dignità. Sono invece sicuramente disponibili: il diritto all’inviolabilità dei segreti privati, i diritti sessuali e quelli patrimoniali.

Altro dibattito ha poi riguardato la compatibilità tra il consenso concepito quale volontà di lesione e il carattere involontario del fatto colposo. Parte della dottrina e la giurisprudenza di maggioranza sottolineano l’incompatibilità strutturale tra la colpa e il consenso, sul rilievo per cui questo deve investire il fatto previsto dalla legge come reato e quindi anche l’evento.

Il consenso putativo ricorre allorquando l’agente ritenga erroneamente sussistere il consenso; ha efficacia scusante in virtù dell’u.c. dell’art. 50, sempre che l’errore non sia stato determinato da colpa.

Il consenso presunto si ha invece quando l’agente sa che il titolare non ha prestato il consenso, ma ritiene che lo avrebbe prestato se fosse stato a conoscenza della situazione di fatto o se ne fosse stato in grado. In ordine alla sua rilevanza ai fini scriminanti, secondo un primo orientamento esso sarebbe irrilevante sul rilievo per cui il consenso non elide l’antigiuridicità di un fatto se non quando sia effettivamente riconducibile alla sfera volitiva del soggetto passivo. Secondo altri invece, una condotta può essere scriminata anche da un consenso presunto, allorchè il soggetto si trovi nell’impossibilità materiale di consentire e si possa ragionevolmente presumere, in  assenza di contrarie indicazioni e sulla scorta di un giudizio obbiettivo, che egli avrebbe consentito se avesse potuto.

 Diversi poi i percorsi seguiti in dottrina per argomentare tale rilevanza: per la teoria soggettiva la presunzione di consenso inciderebbe sul dolo, elidendolo; per la teoria oggettiva, che invoca la negotiorum gestio, il consenso presunto sarebbe idoneo a scriminare le condotte che l’agente pone in essere nell’interesse dell’avente diritto, sempre che sussistano tutti gli estremi delineati dall’art. 2028 c.c.

Esercizio di un diritto

La scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., espressione del principio di non contraddizione, impedisce l’applicazione di una sanzione penale a danno di chi abbia realizzato una condotta astrattamente conforme a una fattispecie di reato, esercitando tuttavia una facoltà riconosciutagli dall’ordinamento.

Quanto all’ampiezza della nozione di diritto scriminante, essa appare comprendere, in uno ai diritti soggettivi propriamente detti, le facoltà, le potestà, i diritti potestativi e comunque ogni attività giuridicamente autorizzata, compresi ormai gli interessi legittimi, alla luce della tutela di carattere profondamente sostanziale che il nuovo codice del processo amministrativo accorda a tale situazione giuridica soggettiva.

Quanto invece alle fonti del diritto scriminante, sono comunemente identificate nella Costituzione, nella Legge tanto ordinaria che costituzionale, nel regolamento, nella consuetudine secundum legem, nonché in tutti gli atti pubblici o privati ai quali la legge riconosce l’effetto di produrre situazioni giuridiche soggettive (provvedimenti giurisdizionali, contratti, etc.). E’ doveroso altresì far riferimento alle norme concordatarie, in virtù dell’art. 7 Cost.

Questione più delicata attiene alla valenza scriminante ex art. 51 c.p. delle facoltà previste dal diritto straniero, che viene in rilievo quando uno straniero compia in territorio italiano un’attività astrattamente configurabile come reato per il nostro ordinamento, ma autorizzata o addirittura imposta nello Stato di provenienza (c.d. reati culturalmente orientati).

Abbandonata l’ipotesi di ricondurla alla scriminante del consenso dell’avente diritto, posto che nella maggior parte dei casi le condotte delittuose sono poste in essere con il consenso della vittima, si è obiettato la natura indisponibile del bene vita, ed è stata altresì ritenuta non invocabile la tesi dell’errore scusabile da parte dello straniero, poiché il più delle volte i reati de quo finiscono per integrare ipotesi di reati naturali, ossi di illeciti la cui portata lesiva è immediatamente percepita da chiunque. Ed infatti l’interpretazione data all’art. 5 c.p. dalla Corte Costituzionale riguarderebbe i soli reati artificiali, ossia fatti il cui disvalore viene positivizzato dal legislatore e la cui offensività non è immediatamente percepibile da chiunque. Di conseguenza nemmeno sul piano della colpevolezza sarebbe possibile individuare una scusante.

In conclusione, nel nostro ordinamento si tende a escludere che la diversità culturale possa essere invocata quale fattore idoneo a legittimare l’esclusione della responsabilità penale, potendo essere utilizzata al più quale criterio per determinare un’attenuazione della pena da irrogare in concreto. È altresì recentemente emerso un orientamento giurisprudenziale, secondo cui in tali casi può tuttavia ammettersi l’esclusione dell’aggravante dell’aver agito per motivi abbietti o futili ex art. 61 n. 1 c.p.

L’esercizio del diritto esclude l’antigiuridicità della condotta tipizzata solo quando posto nel rispetto di determinati limiti:

  • Limiti interni, delimitati dalla stessa norma che riconosce il diritto, che se travalicati producono un abuso del diritto;
  • Limiti esterni, derivanti cioè da altre norme di pari dignità che riconoscono altri interessi rispetto ai quali va valutata la prevalenza o meno del diritto esercitato.

La scriminante di cui all’art. 51 c.p. trova significativa applicazione in relazione all’esercizio di alcuni diritti costituzionalmente tutelati, che qui di seguito si percorreranno brevemente.

Il Diritto di cronaca, garantito dall’art. 21 Cost., presenta due profili contenutistici: quello individualistico a garanzia del singolo, libero di manifestare il proprio pensiero (diritto di informazione); e quello funzionalistico, sulla base del quale l’esercizio di tale diritto si pone come strumento di partecipazione del singolo alla vita democratica della comunità (diritto all’informazione).

Quanto ai limiti interni, si ritiene che tale diritto debba essere tutelato laddove utile e funzionale alla partecipazione democratica  e al progresso sociale e culturale dei cittadini.

Quanto ai limiti esterni invece, l’art. 21 cost. individua espressamente quello del buon costume, vietando espressamente pubblicazioni che lo offendano. La giurisprudenza ne ha tuttavia desunto altri dai principi costituzionali, primo fra tutti quello dell’art. 3 Cost. che, dando riconoscimento alla pari dignità sociale dei cittadini, protegge ciascuno di essi da aggressioni morali ingiustificate che possono compromettere le possibilità di estrinsecazione della propria personalità, compromettendone la reputazione. Sicchè di certo non incostituzionali vanno reputati i reati di ingiuria e diffamazione, non potendo l’esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero essere garantito in maniera indiscriminata con prevalenza su tutti gli altri diritti individuali.

La giurisprudenza ha così individuato le tre condizioni sulla base delle quali l’esercizio del diritto di critica può avere efficacia scriminante rispetto alla diffamazione. Si tratta del rispetto dei limiti della:

  • Verità del fatto narrato;
  • Pertinenza, che impone che i fatti narrati siano di interesse per l’opinione pubblica;
  • Continenza, che richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni dell’altrui reputazione.

 

Il Diritto di critica può definirsi invece come libertà di dissentire dalle opinioni espresse da altri. È un diritto autonomo rispetto a quello correlato di cronaca. I limiti scriminanti di tale diritto sono sostanzialmente costituiti dalla rilevanza dell’argomento e dalla correttezza delle espressioni adoperate. Non è invece richiesta la verità dei fatti, proprio perché la critica si estrinseca giudizi e apprezzamenti, piuttosto che nell’esposizione di fatti oggettivi come avviene nella cronaca.

In giurisprudenza , invero, anche il requisito della continenza viene interpretato abbastanza elasticamente, essendosi ammesso che anche l’uso di espressioni particolarmente pungenti e violente costituisca espressione del diritto di critica e risulti privo di offensività, ove attenga a materie di rilievo sociale e costituzionale.

Una particolare forma del diritto di critica è la satira, consistente in una critica fondata su una rappresentazione che, finalizzata a cagionare ilarità, enfatizza e deforma la realtà, così assumendo i connotati della inverosimiglianza e del paradosso. Va anche  qui senz’altro rispettato il limite della continenza delle espressioni usate, da valutare tenendo ben a mente i caratteri propri della satira.

Il Diritto di sciopero è garantito dall’art. 40 Cost. a tutti i lavoratori nell’ambito delle leggi che lo regolano. Il c.p. era originariamente ricco di norme incriminatrici che potevano interferire con l’esercizio di tale diritto (v. artt. 330 e 333 che punivano l’abbandono collettivo o individuale dei p.u. o incaricati di pubblico servizio del loro ufficio, servizio o lavoro. La Corte Costituzionale ha tuttavia affermato – con sentenze interpretative di rigetto – la prevalenza del diritto di sciopero sugli interessi tutelati dalle suddette norme, considerando il reato scriminato dall’art. 51 c.p., in virtù dell’art. 40, quando l’abbandono fosse stato motivato dall’adesione allo stato di agitazione proclamato dalle rispettive associazioni di categoria).

Quanto ai limiti esterni al diritto di sciopero, venivano individuati nei concorrenti interessi di rilevanza costituzionale costituiti, oltre che dalle libertà dei soggetti che non vogliono aderire allo sciopero e dagli interessi degli utenti del servizio, anche dal bene giuridico del buon andamento della p. a.

Esulano pertanto dal diritto di sciopero quelle azioni sussidiarie, realizzate in occasione di un’astensione collettiva dal lavoro e finalizzate ad agevolare la riuscita dell’agitazione, come quelle che si risolvono in una compressione dei diritti dei lavoratori dissenzienti (es. picchettaggio) o dei diritti dei terzi, come avviene quando gli scioperanti realizzano blocchi stradali danneggiando gli interessi di cittadini non appartenenti alla loro stessa categoria né destinatari diretti delle loro rivendicazioni.

Attualmente la l. n. 146/1990 ha dettato una disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, disponendo l’abrogazione dei reati di cui agli artt. 330 e 333 c.p. , sicchè la norma che ad oggi interferisce con l’art. 40 è il solo art. 340 c.p. relativo all’interruzione di servizio pubblico. Tuttavia tale norma si ritiene inapplicabile agli scioperi nei servizi pubblici essenziali, oggetto di specifiche previsioni della suddetta legge. Pertanto essa è applicabile solo per gli scioperi esercitati nell’ambito di attività non direttamente disciplinate dalla legge.

 Il Diritto di difesa, di cui all’art. 24, co. 2 Cost. , viene in rilievo quale scriminante ex art. 51 soprattutto in relazione al reato di favoreggiamento personale. Il prevalente orientamento giurisprudenziale ritiene scriminato lo svolgimento dell’attività difensiva tipica, disciplinata dalla legge ed esercitata secondo le prescrizioni dettate da essa.

 Ius corrigendi. Al momento dell’entrata in vigore del codice, l’incriminazione dell’abuso dei mezzi di correzione di cui all’art. 571 c.p. sottintendeva un generale riconoscimento della legittima autorità di tutti quei soggetti cui era sottoposta o affidata una persona per ragioni di educazione, istruzione, cura, custodia, vigilanza, e dunque sia all’interno che all’esterno della cerchia familiare. L’avvento della Costituzione ha determinato un progressivo ridimensionamento dell’ambito applicativo dell’esimente in parola, da un lato limitandone l’applicazione ai soli rapporti familiari, e dall’altro valutando più rigidamente i comportamenti effettivamente ascrivibili all’esercizio del diritto, dai quali sono genericamente esclusi quelli che fanno ricorso alla violenza o che sono comunque destinati ad incidere negativamente sull’evoluzione psicofisica del minore. Non è comunque escluso del tutto che nell’ambito di un rapporto di lavoro possa astrattamente invocarsi la scriminante in parola, quantomeno a fronte di comportamenti non violenti, e solo lievemente offensivi dell’onore e decoro altrui.

… e L’adempimento di un dovere o di un ordine dell’Autorità

A tenore dell’art. 51 c.p. “… l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine” .

Tale scriminante trova il proprio fondamento nel principio di non contraddizione, compromesso ove l’ordinamento imponesse da un lato un dato comportamento e dall’altro lo sanzionasse penalmente allo stesso tempo.

Tra le fonti impositive del dovere rientrano le norme giuridiche contenute in leggi formali, negli atti aventi forza di legge, nelle leggi regionali e nelle fonti normative di rango secondario, nonché nelle consuetudini secundum legem. Non rilevano invece, in quanto norme appartenenti a ordinamenti diversi da quello giuridico, i doveri di carattere religioso o morale.

Fonte del dovere scriminante può essere anche l’ordine legalmente dato dall’Autorità. La formulazione letterale della norma induce a escludere che abbia effetti scriminanti l’ordine dato dal privato, prendendo in considerazione la norma solo i rapporti di subordinazione previsti dal diritto pubblico. Ciò sembra confermato anche dalla ratio dell’art. 51 c.p. diretta a soddisfare un interesse di grado pari o superiore a quello protetto dalla norma penale violata con la condotta ordinata. Pertanto l’ordine del privato potrebbe scriminare solo se diretto alla tutela di un interesse sovraindividuale. L’ordine del privato può invece senz’altro rappresentare un limite all’esigibilità di una condotta,  ovvero un parametro per la valutazione della colpa dell’agente.

Affinchè possa valere come scriminante, l’ordine deve essere legittimo, sia dal punto di vista formale, che sostanziale. I requisiti di validità formale sono: la competenza del superiore a emanare l’ordine; la competenza dell’inferiore ad obbedirvi; il rispetto delle forme previste dalla legge. La legittimità sostanziale dell’ordine deriva invece dal rispetto delle norme che disciplinano l’esercizio del potere.

L’ordine illegittimo quindi non ha effetto scriminante salvo che ricorra un errore di fatto sulla legittimità del medesimo, o un ordine insindacabile. In tali due ipotesi dell’ordine illegittimo eseguito ne risponde solo il p.u. che lo ha impartito. Il fatto così compiuto non diviene dunque lecito, ma rimane antigiuridico. Pertanto alcuni ritengono che più che operare una causa di giustificazione in questa ipotesi specifica, si debba parlare di causa di non punibilità in senso stretto.

L’avvento di sistemi improntati ai principi di legalità e democrazia ha imposto di individuare un limite all’insindacabilità dell’ordine. L’ordinamento militare ad es. individua tale limite nella manifesta criminosità dell’ordine, dovendo – ove ricorra tale condizione – il sottoposto non eseguire l’ordine e informarne al più presto i suoi superiori.

La manifesta criminosità deve ormai essere considerata come limite all’insindacabilità dell’ordine anche per il diritto penale comune, la cui valutazione può essere anche di tipo soggettivo, cioè valutando se per l’agente concreto, in base alle sue conoscenze ed esperienze, era manifesta la criminosità dell’ordine.

Legittima difesa

L’art. 52 c.p. stabilisce che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.

La scriminante in questione viene oggi pacificamente considerata quale manifestazione del principio di autotutela privata dall’ordinamento ammessa, in deroga al monopolio statale dell’uso della forza, nei casi in cui l’intervento pubblico non possa essere tempestivo e dunque efficace.

Gli elementi costitutivi della legittima difesa sono: la situazione aggressiva e la reazione difensiva.

La situazione aggressiva viene descritta in termini di un pericolo attuale di un’offesa ingiusta a un diritto proprio o altrui. È necessario in primo luogo che il pericolo sia eziologicamente riconducibile ad una condotta umana, sia essa attiva o omissiva. L’offesa ingiusta va intesa come offesa non iure, non contra ius, dovendosi pertanto includere in tale categoria ogni offesa prodotta in assenza di qualsiasi norma volta ad imporla o autorizzarla.

Oggetto dell’aggressione può essere qualunque diritto, inteso in senso lato quale situazione giuridica soggettiva attiva, compresi dunque gli interessi legittimi e i diritti potestativi. Quanto ai diritti in senso proprio, va riconosciuta tutela tanto a quelli patrimoniali che personali. Oggetto di difesa può essere anche un diritto altrui (soccorso difensivo). È necessario al riguardo distinguere il soccorso del terzo che versi in una situazione di pericolo, ove ai sensi dell’art. 593 c.p. è senz’altro doveroso l’intervento di soccorso, dagli altri casi in cui invece è facoltativo, e in cui opera la scriminante de qua alla ricorrenza degli altri requisiti previsti.

Affinchè possa operare la suddetta scriminante non è necessario che la condotta si sia interamente realizzata, essendo sufficiente che sussista l’elevata probabilità della realizzazione dell’evento lesivo. Deve trattarsi di un pericolo comunque attuale, quindi non di un percolo già realizzato né di un pericolo futuro, per cui potrebbe richiedersi utilmente l’intervento pubblico.

Dottrina e giurisprudenza concordano nel definire l’attualità del pericolo in termini di imminenza e persistenza dello stesso. È imminente il pericolo incombente al momento del fatto; è persistente quello che può realizzarsi quando la condotta non essendosi ancora conclusa, richiede per il suo arrestarsi una reazione al fine di scongiurare la protrazione dei suoi effetti dannosi.

Quale ulteriore requisito la giurisprudenza prevalente richiede altresì l’involontaria causazione della situazione pericolosa, sebbene l’art. 52 – a differenza dell’art. 54 – non contempli espressamente tale requisito. La prevalente dottrina invece rigetta tale ricostruzione, negando autonomia a tale requisito, pur giungendo al medesimo risultato di escludere l’invocabilità della scriminante nelle ipotesi sopra considerate, sulla base dell’assenza dell’animus defendendi in chi volontariamente si espone al pericolo. Il pericolo va comunque accertato sia ex ante che ex post, avendo riguardo a tutte le circostanze oggettive del caso concreto, anche se conosciute successivamente.

Quanto alla reazione difensiva, occorre innanzitutto che sussista una necessità difensiva, che ricorre quando il pericolo non possa essere evitato se non reagendo contro l’aggressore, sempre che la reazione posta in essere non sia sostituibile con altra meno dannosa ma ugualmente efficace secondo un giudizio fondato sulle circostanze di tempo , di luogo e della persona del caso concreto.

Discusso il rilievo ai fini dell’esclusione di tale necessità del commodus discessus, ossia della possibilità di fuga dell’offeso. L’opinione oggi prevalente ritiene che la valutazione di tale elemento vada effettuata in relazione agli interessi coinvolti, escludendone la rilevanza ove attraverso di essa si verrebbe a provocare un danno maggiore di quello derivante dalla reazione difensiva. In ogni caso il giudizio sul commodus discessu va effettuato con riferimento al momento dell’aggressione, non potendo pretendersi una fuga preventiva da porre in essere al momento in cui si profila il pericolo come remota ipotesi futura.

La reazione difensiva deve essere proporzionata all’offesa minacciata. Tale giudizio di comparazione va effettuato tenendo conto di tutte le circostanze oggettive contingenti, quali i mezzi utilizzati reciprocamente, i beni giuridici in conflitto, il livello di ingiustizia dell’offesa, l’effettiva attualità del pericolo, la presenza di soluzioni alternative a quella prescelta, l’incolpevolezza dell’aggredito, i rapporti di forza tra aggressore e aggredito, il tempo e il luogo dell’azione, nonché il valore esistenziale del bene minacciato dall’aggressore.

Per la tesi prevalente in giurisprudenza il requisito della proporzione va valutato con giudizio ex ante, mettendo a raffronto le offese che l’agente poteva ragionevolmente temere dall’aggressore con quelle da lui conseguentemente prodotte.

La legittima difesa domiciliare

Proprio sul requisito della proporzione è intervenuta la l. 13 febbraio 2006, n. 59 che inserito nell’art. 52 due ulteriori commi. Ai sensi delle nuove previsioni, “nei casi previsti dall’art. 614 c.p., comma 1 e 2, sussiste il rapporto di proporzionalità di cui al comma 1 del presente articolo, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di

  1. difendere la propria o l’altrui incolumità;
  2. i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.

La disposizione di cui al comma 2 si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.

Quanto alla natura di tale nuova ipotesi scriminante, secondo un primo orientamento si tratterebbe di un‘ipotesi speciale di legittima difesa, giustificata dal contesto in cui avviene l’aggressione, che introduce una presunzione di proporzionalità. Secondo altra interpretazione, si tratterebbe di una scriminante propria, ponendosi su un piano di eterogeneità rispetto alla scriminante del comma 1, sia per l’irrilevanza del requisito di proporzione sia perché si riferisce ad una cerchia di soggetti qualificati.

Il presupposto per l’applicabilità della scriminante è dato dall’esistenza del requisito oggettivo della sussistenza di una violazione di domicilio, individuata per relationem dall’art. 614 c.p.. Occorre inoltre che l’agente sia legittimamente presente all’interno di detti luoghi e che detenga legittimamente l’arma eventualmente utilizzata per difendersi. Non è comunque sull’uso delle armi che poggia necessariamente tale scriminante, come si desume dal riferimento normativo ad ogni altro mezzo idoneo al fine di difesa.

Quanto ai beni oggetto di tutela, è necessario che la reazione difensiva sia posta al fine di difendere la propria o l’altrui incolumità; o i beni propri o altrui, sempre che non vi sia desistenza e pericolo di aggressione. Occorre pertanto sempre che vi sia un pericolo di lesione all’incolumità fisica propria dell’agente o di altri. Tale ultima ipotesi ricorrerebbe per es. nel caso in cui il ladro, sorpreso all’interno dell’abitazione del proprietario, mostri di volere continuare nella propria impresa criminosa, facendo intendere di esse disposto a sopraffare anche fisicamente chiunque voglia impedirglielo.

Quanto al requisito della proporzione, opera come già detto una presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa. Ci si è dunque chiesti se tale presunzione debba intendersi come assoluta o relativa. Coloro che ritengono la natura assoluta della presunzione valorizzano il dato letterale-teleologico della norma, che ha avuto di mira proprio l’obbiettivo di conferire maggior potere ai singoli cittadini nel loro diritto all’autotutela, riconoscendo loro la sovranità nel proprio domicilio.

Chi aderisce alla tesi della natura relativa della presunzione, afferma che ai fini della configurabilità della scriminante, debbano sussistere anche gli altri requisiti previsti dal comma 1 dell’art. 52, di guisa che il giudice deve comunque sempre accertare la sussistenza di un pericolo attuale, di un’offesa ingiusta e la inevitabilità altrimenti della lesione difensiva, nonostante i commi 2 e 3 tacciano sul punto. Una lettura costituzionalmente orientata della norma , che la armonizzi con il principi di gerarchia dei valori costituzionali e con il principio di ragionevolezza, deve infatti condurre all’affermazione della natura relativa della presunzione di proporzionalità, che si presume quindi esistente, a meno che la pubblica accusa non ne provi l’inesistenza.

Uso legittimo delle armi

Ai sensi dell’art. 53 c.p.ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il p.u. che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso della armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione di delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona “.

Il fondamento della scriminante in parola è ad oggi individuato nello scopo di assicurare l’adempimento dei pubblici doveri, e pertanto nel principio di buon andamento della p.a. riconosciuto dall’art. 97 Cost.

Dalla clausola di riserva inserita all’inizio dell’art. 53 , si evince che tale scriminante ha carattere sussidiario, essendo invocabile solo qualora difettino i requisiti di sussistenza della legittima difesa o dell’adempimento di un dovere.

Quanto ai rapporti con la legittima difesa, si evidenziano i seguenti tratti differenziali:

  • la legittima difesa è una scriminante comune, invocabile da chiunque, quella dell’uso legittimo delle armi è invece propria;
  • la legittima difesa è posta in essere a protezione di qualsiasi diritto aggredito, l’uso legittimo delle armi invece a tutela della realizzazione di un interesse dell’Autorità.

Non mancano certamente profili di contatto, tant’è che vi è chi ha parlato di un rapporto di specialità bilaterale tra le due scriminanti. L’elemento specializzante nell’uso legittimo delle armi sarebbe costituito dal dovere di Agire di un p.u. per il perseguimento di un pubblico interesse, quello nella legittima difesa dalla proporzione.

Quanto ai rapporti con l’adempimento di un dovere:

  • l’uso legittimo delle armi può essere invocato anche con riguardo a beni collettivi;
  • l’uso legittimo delle armi ha carattere doveroso e non meramente facoltativo;
  • l’uso legittimo delle armi è una scriminante propria, non comune.

Quanto alla nozione di pubblico ufficiale di cui all’art. 53 si ritiene che essa si riferisca ai soli appartenenti alla forza pubblica e in genere ai copri militarmente organizzati operanti in funzione di ordine pubblico. La rilevanza di tale scriminante è tuttavia estesa anche a coloro che pur non rivestendo la qualifica di p.u. prestino assistenza a questi necessaria e che tale richiesta di assistenza sia legalmente avanzata dal p.u.

Quanto ai presupposti per la sussistenza della scriminante, occorre che l’utilizzo delle armi sia necessario per il perseguimento della finalità di vincere e superare ostacoli che si frappongono all’assolvimento del dovere da adempiere. Quanto alla nozione di violenza da respingere, essa consiste in un comportamento attivo destinato a coartare fisicamente o psicologicamente (minaccia) la volontà del destinatario, in modo da indurlo a compiere un atto difforme dal dovere di ufficio.

La resistenza da vincere è solo quella che si sostanzia in una condotta violenta, o comunque attiva, destinata ad ostacolare il p.u. nell’adempimento del proprio dovere di ufficio. Resterebbero così estranee all’art. 53 le ipotesi di resistenza passiva o della mera fuga. In realtà, in dottrina si tende ad attribuire rilevanza anche alla resistenza passiva, purchè sussista un rapporto di proporzione tra i mezzi di coazione impiegati e la resistenza da vincere.

La formulazione letterale dell’art. 53 c.p. non richiede espressamente il requisito della proporzione. Parte della giurisprudenza e della dottrina ritiene che il concetto di proporzione sia applicabile alla scriminante in esame solo nel limitato significato di proporzione tra mezzi impiegati e mezzi a disposizione, senza che invece venga concepito come bilanciamento tra i beni in conflitto. Secondo altra dottrina invece, la necessità di considerare la proporzione implica il bilanciamento in concreto tra gli interessi in conflitto, in uno alla valutazione della necessità dell’inevitabilità altrimenti del fatto offensivo con mezzi meno offensivi di quelli in concreto adoperati.

L’art. 53 prevede infine all’ultimo comma che “la legge determina gli altri casi in cui sia autorizzato l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica”.

Stato di necessità

L’art. 54 c.p. dispone che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o ad altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre il fatto sia proporzionato al pericolo”.

Va preliminarmente evidenziato che tale scriminante non opera nei confronti di chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo, come nel caso dei vigili del fuoco, dei bagnini, delle guide alpine, etc.

Il suo fondamento risiede nella comparazione oggettiva degli interessi in gioco.

Nell’ambito della scriminante, alcuni inquadrano il problema dei c.d. conflitti di doveri, che si verifica quando un soggetto si trova di fronte a più doveri giuridici da adempiere e l’adempimento dell’uno comporta l’inosservanza dell’altro. Al riguardo la dottrina richiama il generale criterio, sotteso a tutte le scriminanti, del bilanciamento di interessi e dell’interesse prevalente, così il medico ad es. dovrà recarsi dal paziente più grave per primo.

Lo stato di necessità si differenzia dalla legittima difesa, in quanto vengono giustificate condotte lesive di beni non già di un aggressore ma di un terzo estraneo; inoltre rilevano solo i diritti personali e non anche quelli patrimoniali; guardando alle conseguenze poi, residua un obbligo civile di equo indennizzo, giustificato dal fatto appunto che ad essere leso è un terzo estraneo alla condotta di pericolo.

Sotto il profilo strutturale viene in rilievo il pericolo di un danno grave alla persona (situazione necessitante) e un’azione lesiva necessaria.

Quanto al pericolo di un danno grave alla persona, l’opinione oggi prevalente estende il concetto di persona a tutti i diritti personali, non solo a quello all’integrità fisica.

Un problema interpretativo che si è ripetutamente posto in giurisprudenza consiste nel verificare l’applicabilità dell’art. 54 nelle ipotesi in cui il soggetto abbia posto il comportamento tipico in stato di bisogno economico e abitativo. Ormai estesa la nozione di pericolo danno alla persona alla lesione di tutti i diritti della personalità, si registra un’interpretazione rigorista della giurisprudenza di legittimità, molto severa a interpretare i requisiti dell’attualità del pericolo e dell’inevitabilità altrimenti, “potendo l’occupazione arbitraria di un immobile rientrare nella previsione dell’art. 54 c.p. solo se ricorra il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non coincidendo lo stato di necessità scriminante con l’esigenza dell’agente di reperire un alloggio e risolvere così , in maniera definitiva, i propri problemi abitativi” (Cass. II, 10 maggio 2013, n. 24432).

Il danno alla persona deve essere comunque grave, sia dal punto di vista di una valutazione qualitativa, che quantitativa.

Oltre che per proteggere un diritto proprio, l’agente può invocare la scriminante anche se agisce in soccorso di un terzo (soccorso di necessità). Anche qui la scriminante opera al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 593 c.p.; inoltre si ritiene legittimo il solo soccorso operato nei confronti di un soggetto con cui l’agente abbia rapporto di una certa natura, quale quello familiare. Il soccorso può avere efficacia scriminante anche in presenza di un consenso alla lesione del terzo o di dissenso all’attività di soccorso, purché la reazione necessaria riguardi un diritto indisponibile.

Quanto alla situazione di pericolo, è del tutto indifferente la sua provenienza, non essendo necessariamente richiesta la sua riferibilità eziologica ad una condotta umana. Il pericolo non deve comunque essere volontariamente causato dall’agente. Discusso è se debbano considerarsi volontariamente causate le situazioni di pericolo riconducibili a colpa dell’agente; la tesi oggi prevalente esclude l’operatività della scriminante in tali ipotesi, facendo leva sulla ratio della norma, che è volta a circoscrivere il danno al terzo innocente.

Altro requisito attiene all’inevitabilità del pericolo, occorre cioè che l’agente non abbia alternativa se non quella di violare la legge.

Quanto al requisito di proporzionalità, esse deve chiaramente riguardare il rapporto tra i beni in conflitto, riconoscendosi la sussistenza della scriminante quando il bene minacciato sia pari o superiore rispetto a quello sacrificato. Andrà chiaramente svolto un accertamento prognostico ex ante, fondato sui rischi e non tanto sull’effettiva lesione poi prodotta ai beni in conflitto.

Da ultimo, l’art. 54 co. 3 c.p. prende in considerazione l’ipotesi dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia, nota anche come costringimento psichico o coazione morale, che ricorre quando un soggetto commetta reato perché indotto dall’altrui minaccia. In tale ipotesi del reato commesso risponderà colui che ha posto in essere la minaccia. Fattispecie nella quale si è da taluni ravvisato non una scriminante, ma una causa di esclusione della colpevolezza.

Le scriminanti atipiche

Problema dibattuto è quello relativo all’ammissibilità di cause di giustificazione non espressamente previste dal legislatore: le scriminanti tacite o atipiche. Sono diverse le posizioni emerse tra chi le ha ritenute ammissibili:

  • teoria dell’azione socialmente adeguata: per una prima impostazione, laddove una condotta, in apparenza punibile, venga considerata socialmente adeguata, cioè conforme alle finalità sociali perseguite da una comunità in un determinato momento storico, non può rivestire rilevanza penale (antigiuridicità sostanziale). Si tratta di un’operazione valutativa da molti non ritenuta conforme al principio di legalità.
  • Secondo altri, le scriminanti atipiche devono essere di volta in volta ricondotte alle cause di giustificazioni comuni previste dal codice: ora esercizio del diritto, consenso dell’avente diritto , etc.;
  • Secondo altri ancora , può giungersi all’ammissibilità di una scriminante atipica anche mediante il ricorso all’applicazione congiunta di più scriminanti comuni tipiche.

Quanto alle ipotesi applicative più frequenti di scriminanti atipiche troviamo l’attività sportiva, medica, informazioni commerciali e i c.d. offendicula.

Attività sportiva. In ordine al fondamento della liceità dei danni inferti nell’esercizio delle attività sportive a violenza necessaria o eventuale, si sono registrate varie soluzioni:

  • Quella della riconducibilità alla scriminante del consenso dell’avente diritto (si è però obiettato l’indisponibilità del bene vita/integrità fisica);
  • Quella della riconducibilità alla scriminante dell’esercizio di un diritto, essendo l’attività sportiva tutelata e promossa dallo Stato in considerazione della sua importanza per la formazione psico-fisica della persona (si è però obiettato che la scriminante troverebbe così applicazione solo nelle competizioni ufficiali, e non anche in quelle amatoriali);
  • Quella della combinazione delle scriminanti codificate sopra menzionante.
  • Quella dell’autonomia di tale scriminante, non codificata, conformemente alla teoria dell’azione socialmente adeguata (tesi sposata dalla giurisprudenza prevalente).

Secondo tale ultima tesi si ammette quindi l’applicazione analogica all’attività sportiva delle disposizioni dettate dalla legge per le scriminanti comuni. Si tratterebbe infatti un’analogia in bonam partem con riguardo a norme che non hanno natura penale (le scriminanti), in quanto espressione di principi generali dell’ordinamento. Non manca chi obietta a tale tesi la violazione del principio di legalità cui è ispirato il sistema penale.

Con specifico riguardo all’ipotesi in esame, si sono altresì specificati i limiti entro cui l’attività sportiva può essere assoggettata a un giudizio di liceità. Viene in rilievo il limite del rischio consentito, attesa la rilevanza costituzionale dell’attività sportiva.

In questo contesto giocano un ruolo fondamentale le regole del gioco, elaborate appunto con l’intento di contenere la violenza entro il limite del rischio consentito. Esso va inteso come un’area, non delimitata dall’assoluto rispetto delle regole, ma connessa all’esercizio dell’attività sportiva e al normale comportamento dei contendenti nel suo svolgimento. Il limite del rischio consentito ha tra l’altro carattere relativo, variando in relazione al carattere agonistico o dilettantistico dell’attività sportiva, alla natura di allenamento, gara amichevole o competitiva.

Ciò posto, si possono astrattamente ipotizzare le seguenti situazioni:

  • L’azione delittuosa viene condotta nel rispetto delle regole del gioco: l’azione lesiva rimane senza dubbio all’interno dell’area del rischio consentito e opera la scriminante;
  • L’azione viene compiuta in violazione delle regole. In tal caso occorre distinguere tra violazione volontaria (colposa o dolosa) e involontaria (conseguente alla foga del momento). Mentre nel secondo caso si ritiene che l’evento lesivo ricada comunque all’interno dell’area del rischio consentito, nel primo invece ne fuoriesce e l’azione diviene penalmente rilevante;
  • L’azione è commessa con dolo e intenzione. Nessun dubbio in questo caso sulla rilevanza penale della condotta.

Attività medica. Ricorre l’intervento medico c.d. arbitrario quando il trattamento sanitario è effettuato in difetto assoluto del consenso; in presenza di un consenso invalido (ad. perché non informato); o nel caso di consenso non specificatamente riferito a quel dato intervento praticato dal medico.

Prima di esaminare nel dettaglio le diverse situazioni ipotizzabili, sono diverse le teorie emerse al fine di giustificare l’attività del medico:

  • La teoria dell’azione socialmente adeguata;
  • Quella che ammette la configurabilità di scriminanti atipiche;
  • Infine quella (prevalente) che riconduce l’attività del medico alle scriminanti già codificate, rinviando di volta in volta al consenso dell’avente diritto, adempimento di un dovere , esercizio di un diritto o stato di necessità.

Al di fuori delle ipotesi di interventi necessari o obbligatori per legge in cui si prescinde dal consenso, opera in genere la scriminante del consenso dell’avente diritto, purchè l’intervento abbia finalità terapeutiche e sia eseguito nel rispetto dell’ars medica. Il consenso per essere validamente prestato deve essere personale, esplicito, specifico, informato, immune da vizi, reale ed effettivo (non presunto), ed attuale.

In caso poi di esito fausto dell’intervento, non sussisteranno a monte gli estremi di alcun fatto penalmente rilevante. Ove per esito fausto, deve intendersi soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente. Occorre comunque anche in caso di esito fausto dell’intervento che non vi sia stato un espresso dissenso, altrimenti sarebbe ipotizzabile il delitto di violenza privata.

Nella diversa ipotesi invece di esito infausto, è ipotizzabile il delitto di omicidio o lesioni colpose, nonché anche qui di violenza morale in presenza di un esplicito dissenso all’intervento (art. 32 Cost.). In queste ipotesi l’intervento potrà comunque essere scriminato nei casi di trattamenti obbligatori per legge o interventi necessitati. In quest’ultima ipotesi deve ritenersi sussistere la liceità del comportamento del medico che si astenga dall’intervenire in presenza di un dissenso; al tempo stesso però la condotta del sanitario che decida di intervenire pur in presenza del dissenso, sarà comunque scriminata ove ricorrano esigenze di necessità ed urgenza terapeutiche ex art. 54 c.p. Mentre nei casi di interventi né obbligatori ne necessitati, l’esplicito dissenso comporterebbe una violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, configurando il reato di violenza privata (610).

Offendicula. Tali sono i mezzi di difesa di tipo offensivo tramite i quali si appronta una difesa meccanica a beni di natura patrimoniale o personale contro eventuali aggressori (cani da guardia, filo spinato, etc.). Dottrina e giurisprudenza concordano sulla liceità della predisposizione di tali strumenti a condizione che siano proporzionati rispetto al bene da difendere e che siano riconoscibili da parte dei terzi non aggressori.

A sostegno della liceità di tale condotta si è a lungo fatto riferimento alla scriminante dell’esercizio di un diritto. Attualmente però si suole distinguere a seconda che gli offendicula cagionino un danno al terzo aggressore, ritenendosi in tal caso applicabile la legittima difesa; o cagionino un danno ad un terzo non aggressore, in cui si fa riferimento all’esercizio di un diritto, purchè siano stati osservati i limiti della proporzionalità e della riconoscibilità. In caso infatti di offendicula altamente lesivi e insidiosi, chi li ha predisposti risponderà dell’eventuale evento lesivo provocato a titolo di colpa, o se c’è stata intenzionalità a titolo di dolo.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.