Cassazione ribalta sentenza d’appello: il clan Fasciani ha carattere mafioso

Cassazione Penale Sezione VI, ud. 26 ottobre 2017 – dep. 28 dicembre 2017, n. 57896

Con la sentenza individuata in epigrafe, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla configurabilità del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso ex art. 416-bis c.p. con riferimento alla cd. mafia “non tradizionale”  rappresentata, nel caso specifico, dalla attività criminale del clan Fasciani di Ostia -, accogliendo il ricorso presentato dalla Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma avverso la sentenza di secondo grado, che aveva escluso per mancanza di prova l’aggravante mafiosa nei confronti degli imputati, ritenendoli responsabili solo di associazione a delinquere, e così ridotto nettamente le condanne che in primo grado erano state pesantissime.

Ebbene, la Corte di legittimità ha rivenuto in tale disconoscimento la violazione dell’art. 416 bis c.p., ribadendo l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale».

Alla fattispecie prevista dall’art. 416-bis c.p. sono infatti,riconducibili – proseguono gli Ermellini – non solo le grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche le piccole “mafie”, che annoverino un basso numero di appartenenti (sono sufficienti tre persone), non necessariamente armati, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento ed omertà. Si ricorda, infatti, che l’essere armati e/o l’utilizzo di materiale esplodente non è elemento costitutivo dell’associazione ex art. 416-bis, ma realizza solo un’ulteriore modalità di azione che eventualmente aggrava la responsabilità dei partecipi.

Affinché sussista la condizione di assoggettamento ed omertà, non è affatto necessaria una generalizzata e sostanziale adesione alla subcultura mafiosa, né una situazione di generale terrore tale da impedire qualsiasi atto di ribellione e qualsiasi reazione morale, ma basta un sufficientemente diffuso rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato, anche se non generale; che tale atteggiamento sia dovuto alla paura non tanto di danni all’integrità della propria persona, ma anche solo alla attuazione di minacce che comunque possano realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria – denunciando il singolo che compie l’attività intimidatoria – non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di altri soggetti non identificabili e forniti di un potere sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi.

Per tali ragioni, la Corte ha dunque annullato la decisione della Corte territoriale rinviando per nuovo giudizio.  La Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, dovrà adesso riesaminare la vicenda e «a partire dal carattere mafioso del gruppo» rivalutare ogni questione «circa la partecipazione, con il relativo grado e consapevolezza, degli imputati al predetto sodalizio».

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.