Eutanasia ed il diritto di lasciarsi morire (art. 32 Cost.). Brevi note a Cassazione, sez. I pen., sentenza (12 nov. 2015) 31 marzo 2016, n. 1298, sulla configurabilità dell’attenuante dell’aver agito “per motivi di particolare valore sociale” (art. 62, co. 1, c.p.).

Con il termine eutanasia, dal greco éu tànatos (morte dolce), viene indicata l’ interruzione volontaria della vita di una persona  – con o senza il suo consenso  – affetta da malattia terminale e soggetta a grandi sofferenze per via della malattia medesima.

Si tratta della c.d. eutanasia pietatis causa, intesa come morte arrecata allo scopo di far cessare una condizione umana angosciante e particolarmente dolorosa; la quale, in campo medico, viene altresì definita eutanasia terapeutica. Essa si distingue in commissiva e omissiva, a seconda che la morte del malato venga attuata mediante condotte attive o omissive (in tale ultimo caso l’eutanasia consisterà nel “cagionare” la morte mediante la omissione di pratiche terapeutiche che avrebbero potuto tenere in vita il paziente).

Nel nostro ordinamento non esiste una specifica normativa che regolamenti il fenomeno in disamina, sicché la sua disciplina giuridica è attualmente rimessa alla regolamentazione dettata da norme generali.

Ne consegue che nel caso di eutanasia terapeutica (o pietosa) c.d. attiva, se c’è il consenso della vittima ( v. art. 50 c.p.), la condotta dell’agente verrà sussunta nell’alveo di applicazione dell’art. 579 c.p. ( rubr. omicidio del consenziente); ove difetti il consenso, perché il malato è in stato vegetativo o comunque in stato di incapacità di intendere e di volere, la condotta dell’agente ricalcherà invece la fattispecie di omicidio volontario. Sul punto, incidenter, si rileva tuttavia  che la giurisprudenza prevalente tende a ritenere sussistente il consenso, ove possa presumersi, per le particolari condizioni della vittima, che questa, ove fosse stata cosciente, lo avrebbe prestato (c.d. consenso presunto).

Per quanto invece attiene l’eutanasia c.d. omissiva, in assenza del consenso, il soggetto potrà essere ritenuto responsabile della morte del paziente ai sensi della clausola di equivalenza di cui all’art. 40 c.p., a condizione che sussista a suo carico un esplicito dovere giuridico di impedire l’evento morte (c.d. posizione di garanzia).

Nel caso invece in cui il paziente abbia prestato  il consenso, viene in rilievo l’art. 32, co. 2 Cost., secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Ove, pertanto, il malato rifiuti le cure, il medico ha l’obbligo di rispettare una tale volontà e l’eventuale persistenza dell’attività medico-terapeutica sarà qualificabile come accanimento terapeutico, che integrerebbe il reato di violenza privata (nei casi in cui il paziente ne percepisse la concreta lesività).

L’eutanasia omissiva, a fronte del consenso del paziente (nella forma del rifiuto alle cure mediche), dovrebbe dunque ad oggi essere considerata lecita, a fronte del divieto costituzionale di trattamenti sanitari obbligatori .

Tuttavia, la dottrina prevalente ha affermato che il diritto di lasciarsi morire non coincide con il diritto di morire, ma andrebbe piuttosto inquadrato all’interno del più limitato diritto di non curarsi. Pertanto il diritto di lasciarsi morire andrebbe riconosciuto solo nel caso in cui la morte segua ad un processo causale estraneo alla volontà del soggetto.

Occorre, inoltre, notare che non sempre il rifiuto alla cure conduce a una morte rapida ed indolore del paziente che ha deciso di non resistere più alla malattia; spesso infatti l’interruzione o il rifiuto della terapia comporta atroci sofferenze per il paziente, le quali richiederebbero una pratica attiva di eutanasia, e non meramente passiva, che consenta alla malattia di percorrere tutto il suo naturale e doloroso decorso.

Ebbene la questione sulla liceità o meno dell’eutanasia consensuale attiva si presenta molto controversa e  – ancora oggi, nonostante dell’argomento se ne senta parlare da tempo – di grande attualità. Da un lato vi sono infatti coloro che propugnano l’impunità dell’eutanasia interpretando estensivamente il disposto dell’art. 32 co. 2 Cost., dall’altro si oppongono: principi scientifici e di convenienza, quali la possibilità di errori di diagnosi, di scoperta di nuovi rimedi oltre all’eventualità di pretesti ed abusi; motivi morali e giuridici, dato il valore assegnato alla vita umana dalla coscienza comune oltre che dall’ordinamento; e infine, gli – ancora oggi – influenti motivi religiosi.

Ciò che viene comunque da tutti condivisa è la necessità che venga introdotta al più presto nel nostro ordinamento una normativa specifica a disciplina della fattispecie in oggetto.

L’attuale sussistenza di un dibattito molto vivace in tema di liceità dell’eutanasia trova riscontro in una recentissima sentenza della S.C. di Cassazione (Cassazione, sez. I pen., sentenza (12 nov. 2015) 31 marzo 2016, n. 1298), con la quale è stata confermata la condanna a 9 anni e 4 mesi irrogata nei precedenti gradi di giudizio all’imputato, accusato di omicidio aggravato ai danni della moglie, per averla colpita con una coltellata, dopo aver tentato di ucciderla con una elevata dose di sedativo.

A mezzo del ricorso, l’imputato chiedeva l’applicazione dell’attenuanteper aver agito per motivi di particolare valore sociale” (art. 62, co. 1, c.p.), essendo stato mosso dalla “finalità altruistica di porre fine alle atroci sofferenze della consorte“, allettata perché affetta da lunghi e numerosi anni da una grave forma di artrite reumatoide.

Ebbene, i giudici della legittimità rigettano il ricorso sulla base del principio di diritto secondo cui i motivi di particolare valore sociale debbano corrispondere a valori etici o sociali, riconosciuti come preminenti dalla collettività … ovvero, a principi generalmente approvati dalla società, in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel determinato momento storico, appunto per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo da sminuire l’antisocialità dell’azione criminale.

Così non è nel caso di specie, secondo i giudici, atteso che le discussioni tuttora esistenti sulla condivisibilità dell’eutanasia sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea: non ricorre pertanto la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come di particolare valore morale e sociale.

Ne è, pertanto, derivato il rigetto del ricorso e la conferma della condanna inflitta dal giudice del merito.

Scarica il testo della sentenza: Cass_31marzo2016

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.