Visite coniugali in carcere: il diritto del detenuto all’affettività

Le restrizioni dovute all’ingresso in carcere del detenuto non si arrestano alla primaria privazione della libertà, ma va oltre, comportando la sospensione dei rapporti umani e delle relazioni personali, familiari ed intimo-affettive. All’interno del carcere, salvo rare eccezioni e qualche “bacio rubato” durante i colloqui, la sfera affettiva e sessuale del detenuto è del tutto negata.

La disciplina dettata dagli artt. 18 o.p. e 37 reg. es. in ordine allo svolgimento dei colloqui visivi in carcere, dispone infatti che essi avvengano sotto il costante controllo visivo del personale di custodia ed in appositi locali o aree all’aperto (sempre facenti parte della struttura penitenziaria, ovviamente). In tale disciplina non troverebbe, pertanto, tutela il diritto all’affettività e all’intimità del detenuto con il proprio partner; diritto che parrebbe anch’esso essere meritevole di tutela e che può certamente inglobarsi nel principio personalistico (art. 2 Cost.) oltre che nel diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari in carcere (artt. 29, 30 e 31 Cost.) e nel principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 Cost.).

Interrompere il flusso dei rapporti umani ad un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto. Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire l’identità sociale del detenuto. Tutti sono concordi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici.

E’ comprovato che molti individui, che prima dell’incarcerazione avevano sempre avuto ed espresso un comportamento eterosessuale, a causa della promiscuità della vita carceraria, del turpiloquio e delle oscenità di cui diventano spettatori, subiscono un vero e proprio processo di depersonalizzazione ed uno parallelo di adattamento all’ambiente, contraddistinto dal codice della subcultura carceraria (regole non scritte, vigenti tra i detenuti).

La maggior parte dei detenuti raccontano come il desiderio sessuale nei primi mesi in carcere sia del tutto assente. Poi avviene il risveglio. Si inizia a praticare l’autoerotismo, che presto finisce per non appagare più a sufficienza; si è così portati inesorabilmente a desiderare il rapporto omosessuale che può divenire talora anche mezzo di sfruttamento e merce di scambio.

Questa depersonalizzazione ha, per molti detenuti, effetti dirompenti: non si riconoscono più nei propri comportamenti, tendono a dissociarsi, con evidenti ricadute psico-fisiche e la nascita, spesso, di psicopatie.

A livello sovranazionale, l’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo sancisce il “diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali” e che “il comportamento sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata”. All’articolo 12 viene, poi, anche sancito il diritto di creare una famiglia.

Su questo sfondo normativo, il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. (Raccomandazione R(98)7, regola n. 68). Parimenti, anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato di mettere a disposizione dei detenuti dei luoghi per coltivare i propri affetti (Raccomandazione 1340(1997) relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e sociali).

Ben 31 Stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa, prevedono nel proprio ordinamento interno, attraverso svariate procedure, la possibilità per il detenuto di accedere a visite affettive con il proprio partner. Ricordiamo, tra gli altri, Russia, Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, ed Austria. In Germania e Svezia, addirittura, negli istituti penitenziari sono stati edificati dei miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la famiglia.

Anche fuori dall’Europa accade similmente. In Canada le visite coniugali avvengono dal 1980 in apposite roulotte esterne al carcere. In America, fin dagli anni ’90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i prigionieri hanno la possibilità di ricevere in visita una “professionista del sesso”. Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico; e l’elenco potrebbe continuare.

Attualmente, il sistema utilizzato nel nostro ordinamento, per consentire al detenuto di mantenere relazioni anche intime con il proprio partner, è quello dei permessi premio, che gli permettono di trascorre un breve periodo in famiglia (max 15 giorni per ciascuna autorizzazione e max 45 giorni l’anno, e cioè 3 permessi premio).  E’ noto, però, che il beneficio viene concesso dal Magistrato di sorveglianza non a tutti i detenuti, ma solo ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e non risultano socialmente pericolosi.

In Italia, c’è stata la proposta di legge 653/86 (poi abrogata), che ha considerato l’idea di introdurre delle apposite celle per l’amore, in modo che il detenuto potesse mantenere un legame di coppia preesistente. Inutile dire come l’argomento abbia suscitato così tante perplessità, da essere presto stato messo da parte.

Successivamente il Magistrato di Sorveglianza di Firenze, su ricorso di un detenuto, sollevava eccezione di costituzionalità dell’art. 18 o.p., nella parte in cui prevede il controllo a vista e non auditivo del colloquio, perché ciò impedisce di avere rapporti intimi, anche sessuali, con il coniuge o convivente, in violazione degli artt. 2, 3, 27, 29 e 32 Cost., nonché a varie fonti sovranazionali.

Il controllo visivo violerebbe, in buona sostanza, la dignità umana del detenuto, non permetterebbe il pieno sviluppo della sua personalità, andando ad incidere negativamente sulla rieducazione e sulla salute, soprattutto poiché, di fatto, impedirebbe i rapporti affettivi, compresi quelli sessuali, così raffigurandosi alla stregua di un trattamento contrario al senso di umanità.

La Corte Costituzionale (sent. n. 301/2012), pur nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale, dopo aver sottolineato come di per sé l’eliminazione del controllo visivo non basterebbe a realizzare l’obiettivo perseguito, perché per le visite occorrerà predisporre una disciplina che stabilisca termini, modalità, destinatari, numero, durata, misure organizzative, ha poi richiamato l’attenzione del legislatore sul problema dell’affettività in carcere anche per le indicazioni provenienti dal paragone con tanti Stati nel mondo che riconoscono al detenuto una vita affettiva e sessuale intramuraria, e dagli artt. 8 e 12 della CEDU, riconoscendo come si tratti di un’esigenza fortemente avvertita sul “pianeta carcere” che il legislatore non può esimersi dall’affrontare.

E così la proposta di introdurre delle “stanze dell’affettività” o “love rooms” è tornata di recente all’attenzione, soprattutto grazie agli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, una commissione di esperti del mondo del carcere voluta dal Ministro Orlando, che ha terminato i lavori nel 2016. Per l’affettività in carcere, la commissione ha proposto l’istituto della “visita”, diversa dal “colloquio”, da svolgersi senza il controllo visivo e/o auditivo del personale di sorveglianza in “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, separate dalla zona detentiva, con pulizia affidata ai detenuti, e da svolgersi in un “opportuno lasso temporale”.

In via sperimentale, nel carcere di Milano Opera, sono state recentemente edificate le “stanze dell’affettività”, formate da una cucina, un frigorifero, un tavolo con le sedie e da un divano con un televisore. Per un giorno intero i detenuti ammessi potranno parlare, prendere un caffè, giocare, abbracciarsi e baciarsi come una famiglia normale dimenticando di essere dentro un carcere. Al beneficio sarebbero ammesse 16 famiglie, selezionati appositamente dagli educatori, ogni anno, perchè considerati i nuclei familiari più sofferenti.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.