Colloqui con i detenuti: la tutela dei rapporti familiari in carcere

Il diritto dei detenuti (e degli internati) al mantenimento delle relazioni familiari – espressamente sancito e tutelato dalla Costituzione agli artt. 29, 30, 31 – trova concreta attuazione, soprattutto, attraverso l’art. 18 o.p. (legge 26 luglio 1975, n. 354) e l’art. 37 reg. es. (d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230), che disciplinano i colloqui dei detenuti con i familiari, i conviventi e le altre persone.

In quanto espressione di principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, il diritto dei detenuti al colloquio con i familiari non può essere negato (semmai, limitato in presenza di altri interessi costituzionalmente garantiti). Peraltro, la negazione del diritto al mantenimento delle relazioni familiari si porrebbe in contrasto con il senso d’umanità che deve presidiare l’esecuzione delle pene detentive, oltre che con la finalità educativa (art. 27, comma 3, Cost.).

Ai sensi delle norme supra citate, le persone che possono essere ammesse ai colloqui con i detenuti e gli internati sono: i congiunti, i familiari, i conviventi e “le altre persone”, ma solo quando ricorrono ragionevoli motivi.

L’art. 18 o.p., nell’indicare le persone che possono essere ammesse ai colloqui con i detenuti, fa riferimento, in modo distinto, ai “congiunti”e ai “familiari”. Al riguardo, sia la dottrina prevalente che l’amministrazione penitenziaria ritengono che, ai fini della disciplina dei colloqui, i due termini abbiano significato equivalente.

Quanto alla nozione di congiunti o familiari, andrebbero considerati tali, oltre al coniuge, le persone fra loro legate da vincoli di parentela o di affinità entro il limite del sesto grado (artt. 74 e ss. c.c.). Tuttavia, secondo l’amministrazione penitenziaria (circolare n. 3478 del 1998), l’applicazione degli artt. 74 e ss. c.c. comporterebbe “un eccessivo ampliamento dei soggetti legittimati” ai colloqui, per cui l’amministrazione penitenziaria ha individuato un criterio più restrittivo, stabilendo che, a fini dell’ordinamento penitenziario, i termini “familiari” e “congiunti” si riferiscano ai parenti e agli affini entro il quarto grado. Solo tali soggetti sono immediatamente legittimati al colloquio; i parenti o affini oltre il quarto grado potranno accedere ai colloqui (come le persone estranee alla famiglia), soltanto qualora ricorrano ragionevoli motivi (art. 37, comma 1, reg. es.).

La categoria dei “familiari e congiunti” è ristretta ulteriormente per i detenuti inseriti nelle sezioni di Alta Sicurezza o sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis o.p. Per i colloqui di tali detenuti, l’amministrazione penitenziaria ha stabilito che sono immediatamente legittimati ai colloqui i parenti e gli affini sino al terzo grado. Anche per questi detenuti, le persone estranee alla famiglia, i parenti o gli affini oltre il terzo grado di parentela saranno ammessi ai colloqui con autorizzazione, subordinata alla sussistenza di “ragionevoli motivi” o, nel caso previsto dall’art. 41 bis, comma 2 quater lett. b, “di casi eccezionali, determinati, volta per volta”.

Sono, invece, conviventi le persone che coabitavano col detenuto prima della carcerazione, senza attribuire nessuna rilevanza all’identità del sesso o alla tipologia dei rapporti concretamente intrattenuti con il detenuto (more uxorio, di amicizia, di collaborazione domestica, di lavoro alla pari, ecc.).

Nonostante non manchi qualche criticità verso la su esposta disciplina, è evidente come la normativa tenda ad una piena tutela del diritto al mantenimento di corrette relazioni familiari. Tutela che impone all’amministrazione penitenziaria di attivarsi, qualora risulti che i familiari non mantengano rapporti con il detenuto, mediante apposita segnalazione all’Uepe per gli opportuni interventi.

Le persone diverse dai congiunti e dai conviventi potranno essere, come più volte detto, ammesse ai colloqui con i detenuti, ove ricorrano “ragionevoli motivi”. Al fine di disciplinare l’esercizio del potere discrezionale di ammissione ai colloqui attribuito al direttore del carcere (dopo la sentenza di primo grado), l’amministrazione penitenziaria (circolare del 1998, cit.) ha individuato alcuni criteri guida.

Si dovranno così valutare “le situazione personali dei singoli ristretti, tanto più se considerate nei programmi di trattamento o comunque conosciute dagli operatori”; particolare tutela deve poi essere riservata: alle “relazioni affettive che danno vita a rapporti costruttivi e strutturati” (si pensi ai rapporti tra fidanzati); ai colloqui di studio e di lavoro; ai colloqui con gli operatori socio-sanitari delle strutture e dei servizi assistenziali territoriali, al fine di mantenere la continuità di programmi terapeutici o di trattamento educativo-sociale istituzionalmente svolti; ai colloqui con i rappresentanti delle comunità terapeutiche, se non altrimenti legittimati (artt. 17 e 78 o.p).

Quanto alle modalità di svolgimento dei colloqui con i detenuti, ai sensi dell’art. 18 o.p. “i colloqui si svolgono… sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”, in appositi locali privi del vetro divisorio (salvo che ricorrano particolari circostanze, quale ad es. motivi di salute o sicurezza) o all’aperto. A tal riguardo, infatti, l’art. 37, comma 2, reg. es. consente alle direzioni degli istituti penitenziari di attrezzare aree esterne (“spazi all’aperto”), per lo svolgimento dei colloqui. Ed è proprio valorizzando tale norma, che l’amministrazione penitenziaria, nella circolare del 1998 n. 3478, ha sottolineato come, salvo la sussistenza di motivi ostativi legati all’ordine e alla sicurezza degli istituti, “non vi è alcuna ragione ordinamentale che impedisca lo sviluppo delle aree verdi come modalità generalizzata di svolgimento dei colloqui e che veda la partecipazione di tutto il nucleo familiare o di altre persone che abbiano un vincolo significativo”.

Al colloquio possono essere ammesse non più di tre persone. Il colloquio si svolge sotto il controllo a vista, non auditivo, del personale di custodia, al fine di assicurare che ognuno tenga un corretto contegno e che non crei disturbo. In caso contrario, il personale preposto al controllo sospende dal colloquio le persone che tengono un comportamento scorretto e molesto, riferendo al direttore, il quale decide sull’esclusione.

Non è consentita l’intercettazione, ai fini delle indagini, dei colloqui dei detenuti con i familiari e le altre persone, se non debitamente autorizzata nelle forme di legge, a pena di inutilizzabilità.

Quanto alla frequenza dei colloqui, sono ammessi sei colloqui al mese; si tratta dei colloqui di tipo, per così dire, ordinario, per i quali cioè è prevista la concessione per legge, senza alcuna valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione. Infatti, il limite di sei colloqui al mese può essere superato in casi particolari (ad es. quando il detenuto sia gravemente infermo o quando il colloquio si svolga con prole di età inferiore ai 10 anni).

Nel caso detenuti per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’art. 4 bis, per i quali si applichi il divieto di benefici ivi previsto, il numero dei colloqui non può essere superiore a quattro al mese.

Regole ancora più restrittive sono dettate per i detenuti al 41 bis, per i quali è prevista la possibilità di svolgere un colloquio ogni 30 giorni, in locali muniti di vetro divisorio a tutt’altezza che impedisca il contatto e il passaggio di oggetti tra i partecipanti al colloquio ed il detenuto.

Il colloquio ha la durata massima di un’ora. Anche in questo caso, si tratta di una disciplina derogabile; la durata del colloquio può infatti essere prolungata “in considerazione di eccezionali circostanze”, ovvero quando il colloquio si svolga con familiari e conviventi residenti in un Comune diverso da quello in cui ha sede l’istituto. Inoltre, nei confronti dei detenuti che svolgono attività lavorativa articolata su tutti i giorni feriali, è favorito lo svolgimento dei colloqui nei giorni festivi, ove possibile, tenendosi conto delle particolari esigenze organizzative dell’istituto.

I colloqui del detenuto possono essere anche telefonici. In tal senso, il detenuto ha diritto a una telefonata alla settimana, della durata di dieci minuti. Può essere concesso un numero maggiore di colloqui telefonici in occasione del rientro dal permesso, oppure in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza.

La corrispondenza telefonica è a spese del detenuto. In molti istituti sono disponibili carte telefoniche prepagate con cui è possibile telefonare solo a familiari o alle terze persone autorizzate.

Interessante rilevare come alcuni istituti penitenziari,  in via sperimentale, abbiano iniziato a utilizzare lo strumento della videochiamata via internet con i detenuti, per favorire i rapporti tra madri e figli minori.

L’autorità competente ad autorizzare i colloqui con i detenuti è, per gli imputati, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, l’autorità giudiziaria procedente. Dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, i permessi di colloquio divengono di competenza del direttore dell’istituto.

Nel caso in cui il soggetto sia ristretto in esecuzione di diversi titoli detentivi emessi in relazione a procedimenti che si trovano in fasi o gradi diversi,si pone il problema di individuare l’autorità competente ad autorizzare i colloqui. Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, ritengono necessario e sufficiente che si pronunci l’autorità giudiziaria che procede, poiché le esigenze di tutela legate al procedimento penale ancora pendente prevalgono su ogni altra valutazione. Secondo altri, invece, sarebbe necessaria la pronuncia di tutti gli organi competenti, attesa la diversità dei criteri di valutazione da porre a fondamento della decisione.

I provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria, in materia di colloqui visivi e telefonici dei detenuti e degli internati, in quanto incidenti su diritti soggettivi, sono sindacabili in sede di giurisdizione mediante reclamo al magistrato di sorveglianza che decide, con ordinanza ricorribile per cassazione, secondo la procedura indicata nell’art.14 ter o.p. (così SS. UU. sentenza n. 25079 del 2003).

Disciplina diversa, e giustamente fortemente garantita, è quella prevista per i colloqui del detenuto con il proprio difensore. L’imputato in stato di custodia cautelare o la persona arrestata o fermata hanno, infatti, diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura o subito dopo l’arresto o il fermo. Soltanto quando sussistono specifiche ed eccezionali ragioni di cautela e soltanto nel corso delle indagini preliminari, su richiesta del P.M., il giudice, con decreto motivato, può dilazionare l’esercizio del diritto di conferire con il difensore, per un tempo non superiore a cinque giorni (nel caso di arresto o fermo e fino a quando il soggetto non è posto a disposizione del giudice, la dilazione può essere disposta dal P.M).

Ovviamente, anche il condannato ha diritto di conferire con il proprio difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena e per tutta la sua durata.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.