Il tentativo di reato. Desistenza volontaria e recesso attivo

La fattispecie del delitto tentato è descritta all’art. 56, comma 1, c.p., in forza del quale chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

Dal punto di vista oggettivo, il delitto tentato si rappresenta come una condotta che non raggiunge i requisiti della tipicità, in quanto gli atti non hanno integrato la condotta (nei reati di mera condotta) o prodotto l’evento (nei reati d’evento), per cui non si ha la consumazione del delitto.

Le dottrina tradizionale, nella configurazione dinamica del reato, distingue tre fasi: l’ideazione, che si ha quando l’agente concepisce il reato nella propria psiche e matura il proposito di commettere il reato; l’esecuzione, che si realizza quando l’agente esteriorizza materialmente la condotta necessaria per la sussistenza del reato (fase che taluni suddividono in attività preparatoria ed attività esecutiva vera e propria); ed infine la consumazione, che si ha quando sono integrati i requisiti necessari richiesti dalla norma incriminatrice ai fini della configurabilità del reato.

Dottrina e giurisprudenza concordano oggi nel considerare il tentativo non tanto come circostanza attenuante rispetto al reato consumato, bensì come titolo autonomo di reato, dotato di propria oggettività giuridica e di propria struttura.

L’art. 56 c.p. svolge una funzione estensiva dell’ordinamento penale: infatti, attraverso la combinazione della norma generale sul tentativo con le singole norme incriminatrici di parte speciale, si dà vita ad altrettante nuove norme incriminatrici le quali, benché conservino il nomen iuris delle figure giuridiche cui si riferiscono, si configurano come autonome figure di reato (es. tentato omicidio, tentato furto, e così via).

Venendo ai requisiti di punibilità del reato a titolo di tentativo, anzitutto si deve trattare di delitto tentato, e non di contravvenzione: in tal caso la dizione letterale del codice appare inequivoca nell’ammettere la sanzione penale, a titolo di tentativo, soltanto per i delitti.

Quanto alle ragioni di ciò, si è sostenuta l’inopportunità di punire fatti dotati di minor disvalore sociale, quali sono generalmente i reati contravvenzionali. L’argomentazione tuttavia più convincente evidenzia come la maggior parte delle contravvenzioni rappresentano già forme di tutela anticipata (essendo costruite secondo lo schema del pericolo presunto): non sarebbe pertanto opportuna un’anticipazione ulteriore della tutela con la punibilità del tentativo.

Oltre alle contravvenzioni, la dottrina penalistica ritiene che vi siano altre figure criminose alle quali non si possa applicare la norma sul delitto tentato: tra queste figurano innanzitutto i delitti di pericolo. Anche in relazione ai delitti di attentato, per i quali si ravvisa una struttura della fattispecie analoga al tentativo, si nega tendenzialmente la possibilità di coniugare i due modelli normativi, per cui un tentativo di attentato, essendo tentativo di un tentativo, costituirebbe una contraddizione in termini, divenendo un non tentativo.

Dalla formulazione dell’art. 56 c.p. si evincono i tre elementi costitutivi della condotta di tentativo:

  1. il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento;
  2. l’univocità degli atti;
  3. la loro idoneità.

L’idoneità di cui all’art. 56 c.p. deve essere valutata tramite una c.d. prognosi postuma, attraverso un giudizio ex ante, avente ad oggetto le circostanze conosciute e conoscibili dall’agente al momento della commissione del fatto. La valutazione di idoneità va effettuata in relazione al caso concreto; infatti la capacità potenzialmente lesiva degli atti non si può valutare in astratto, essendo imprescindibile la considerazione delle circostanze concrete nelle quali l’agente opera.

Quanto al requisito della non equivocità degli atti, inequivoco equivale a non dubbio, certo, sicuro. Tale inequivocità va riferita al delitto, gli atti cioè devono essere compiuti senza dubbio al fine di compiere quel determinato delitto.  Avendo poi il legislatore utilizzato un’espressione al plurale (inequivocità degli atti), il giudizio di non equivocità andrà riferito non già all’ultimo degli atti posti in essere, bensì agli atti facenti parte dell’azione, naturalisticamente intesa, agli atti legati da contestualità e da connessione teleologica.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è indubbio che il tentativo richieda il dolo: la condotta consistente nel tentativo viene ritenuta dalla dottrina penalistica pressoché unanimemente incompatibile con la colpa.

Si è dibattuto inoltre circa l’intensità del dolo compatibile con il tentativo. La dottrina oggi dominante afferma che il dolo del tentativo debba necessariamente consistere nell’intenzione di commettere il delitto perfetto (dolo diretto, con esclusione del dolo eventuale), in quanto «chi, mirando ad altro risultato accetta il rischio che abbia a verificarsi anche un delitto , non si rappresenta e non vuole gli atti come diretti alla commissione di questo delitto».

La giurisprudenza è oggi allineata alla tesi prevalente in dottrina, che esclude la rilevanza del dolo eventuale. Non mancano tuttavia, pensieri discordi sul punto, sebbene minoritari.

Sebbene non consumato, il delitto (tentato appunto) necessita tuttavia una sanzione, che sarà ragionevolmente più lieve di quella prevista per il delitto consumato. Le conseguenze sanzionatorie della commissione di un delitto tentato, sono delineate all’art. 56, comma 2 c.p.

Il legislatore ha chiaramente fatto propria l’idea secondo la quale il tentativo merita sì una sanzione, la quale devo però essere ridotta rispetto alla pena prevista per il delitto consumato.

Si evince  così che il nostro Legislatore ha voluto evitare gli eccessi di una concezione soggettivistica del tentativo, la quale, considerandolo punibile in forza della sola volontà delittuosa dell’agente, non può che farne derivare la conseguenza di un’eguale sanzione, indipendentemente dalla consumazione o meno del delitto.

L’art. 56, ai commi 2 e 3 c.p., prosegue affermando che se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora essi costituiscano per se un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.

Trattasi dell’ipotesi della desistenza volontaria e  del recesso attivo, rispetto alle quali si è stabilito un autonomo trattamento sanzionatorio rispetto al delitto tentato.

Nella prima delle due ipotesi citate, l’agente, volontariamente, desiste dall’azione; nella seconda l’azione è già stata compiuta, ma ciò che viene dall’agente impedito, è la causazione dell’evento.

 Volontarietà significa libertà di determinazione del proprio agire, che certamente non sussiste quando una delle scelte possibili diviene quasi obbligata (ad esempio nel ladro che desiste temendo l’arrivo della polizia).

A titolo premiale, viene stabilita la non punibilità dell’agente che desista volontariamente dalla condotta. Se però l’agente ha commesso altri reati, sarà comunque punibile per essi (ad. es. la desistenza volontaria dal furto con scasso non esime il reo dalla pena prevista per il danneggiamento).

Il recesso attivo comporta un’attivazione dell’agente al fine di impedire la causazione dell’evento. Anche in questo caso la condotta deve essere volontaria.

Sotto il profilo sanzionatorio , viene prevista per il recesso attivo una sanzione penale, sia pur ridotta rispetto al delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.

Il recesso attivo opera inoltre come circostanza attenuante nell’ipotesi in cui l’evento si verifichi, e quindi il delitto si possa considerare a tutti gli effetti consumato. L’art. 62, n. 6 c.p., dispone l’attenuazione della pena se l’agente si è adoperato spontaneamente e efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

La disciplina testè descritta non si applica ai reati permanenti. Per l’interruzione volontaria di tali attività delittuose, possono applicarsi, secondo la disciplina ordinaria, le circostanze attenuanti di cui all’ art. 62 n. 6 c.p. e le attenuanti generiche di cui al 62 bis.

Costituiscono tuttavia una costante nella legislazione le previsioni premiali relative alle forme di dissociazione dalle associazioni delittuose di carattere politico e alle bande armate, e al recesso dei partecipi di un’associazione prima che siano commessi i delitti oggetto della stessa.

Con la legislazione di emergenza, sono state introdotte le misure premiali della dissociazione e collaborazione con la giustizia del singolo reo in confronto a un contesto plurisoggettivo organizzato, con specifico riferimento al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione o di terrorismo, i delitti di terrorismo e di mafia.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.