Corte Costituzionale 32/2014: gli effetti sulle pene, ancorché già definitive

Com’è noto, la Corte Costituzionale con sent. 32/2014 ha eliminato, con effetto ex tunc, la disciplina che aveva introdotto un trattamento più severo per lo spaccio delle c.d. droghe leggere (reclusione da 6 a 20 anni di reclusione e multa da euro 26.000 ad euro 260.000) ed è stato ripristinato , sempre con efficacia ex tunc, il più mite trattamento sanzionatorio anteriore ( da 2 a 6 anni di reclusione e multa da 5.164 euro ad euro 77.468).
La Corte Suprema di Cassazione a Sezione Unite all’esito dell’udienza in camera di consiglio del 29 maggio 2014, ha risposto al seguente quesito: “Se la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, ma che incide sul trattamento sanzionatorio, comporti una rideterminazione della pena in sede di esecuzione, vincendo la preclusione del giudicato”.
Ed hanno dato la seguente soluzione:
Affermativa, il giudice dell’esecuzione ai fini della rideterminazione della pena dovrà tener conto del D.P.R. n.309 del 1990 come ripristinato a seguito della sentenza Corte Costituzionale n.32 del 2014, senza tener conto di successive modifiche legislative”, con conseguente superamento del principio di intangibilità del giudicato.
Evidente come la conformità a Costituzione della pena, specie se incidente sulla libertà personale, deve essere costantemente garantita, dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione. Vale a dire che una persona che sia stata condannata in virtù di una pena che sia stata definita successivamente – in via diretta od in via indiretta – illegale, come nel caso di specie, ha diritto a rimettere in discussione anche una sentenza divenuta definitiva.
Il giudicato non è, quindi, più un dogma assoluto di intangibilità, a fronte di una pronunzia di incostituzionalità che non colpisca direttamente la norma, ma si riferisca solo ad una parte – seppure essenziale – quale è la pena.
Il richiamato dogma dell’intangibilità del giudicato, tesi propugnata da chi negava (vanamente per fortuna) l’accesso del condannato all’incidente di esecuzione, pare, quindi, venire superato dalla fondamentale esigenza di garantire una “giustizia giusta” ; necessità che si estrinseca, soprattutto, in relazione alla pena (ed al suo quantum), che costituisce segno evidente sia della pretesa retributiva dello Stato (che deve apparire proporzionata al fatto ed alla persona), sia alla prospettiva di riabilitazione e reinserimento del soggetto.
In particolare, il principio per il quale la pena in tutto o in parte inflitta sulla base di una normativa dichiarata successivamente incostituzionale non può più essere eseguita, anche se il relativo rapporto è coperto da giudicato, è stato affermato dapprima con riguardo alla declaratoria di incostituzionalità della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 bis c.p. (Cass. 27 ottobre 2011 – 13 gennaio 2012, n. 977), poi con riguardo all’art. 7, comma 1, d.l. 340/2000 ( Cass. S.U. 24 ottobre 2013 – 7 maggio 2014, n. 18821), ed infine con riguardo alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 69, comma 4, c.p. , secondo la quale la dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale diversa da quella incriminatrice, ma incidente sul trattamento sanzionatorio, comporta una rideterminazione della pena in sede di esecuzione).
Di chiara evidenza come il principio da ultimo affermato debba trovare applicazione anche nel caso di specie; infatti, quella inflitta sulla base di una normativa dichiarata incostituzionale e, quindi, spazzata via ex tunc, sarebbe una pena da ritenersi attualmente illegale. Ne consegue che, anche in sede di esecuzione, il Giudice deve rideterminare la pena applicando l’art. 73 D.p.r. 309/1990 così come vigente prima delle modifiche apportate dalla l. 49/2006.
La lettura coordinata delle sopra citate pronunce ha quindi posto le seguenti questioni:
a) in che termini ed in quale misura debba considerarsi illegale la pena irrogata sulla base della disciplina dichiarata incostituzionale;
b) quali poteri abbia il Giudice dell’esecuzione nel sostituire il trattamento sanzionatorio illegale con un nuovo trattamento sanzionatorio, sulla base della disciplina che rivive.
In ordine alla prima questione, occorre stabilire quale pena o porzione di pena debba considerarsi illegale e, quindi, soggetta all’intervento terapeutico del Giudice dell’esecuzione. Vi è un orientamento secondo cui il Giudice dell’esecuzione avrebbe il potere di incidere sulle pene illegittime, intendendosi per tali – tuttavia – soltanto le pene detentive eccedenti i nuovi (o meglio vecchi e ripristinati) massimi edittali; in altri termini, secondo tale orientamento, le pene di 6 anni di reclusione o inferiori ai 6 anni sarebbero comunque legittime, perché in ogni caso ricomprese nei limiti del massimo edittale stabilito dalla l. 49/2006. Ad avviso dello scrivente – tesi che trova la buona compagnia di altra parte della Giurisprudenza -, un tale orientamento non può essere condiviso. Non corrisponde al vero che la pena illegale vada considerata solo quella superiore agli anni 6 di reclusione. Di fatto, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 32/2014 ha spazzato via la norma che, per le droghe leggere, stabiliva la pena della reclusione da 6 a 20 anni di reclusione; ciò significa che ad essere incostituzionale non è la pena superiore ad anni 6 di reclusione, ma la pena determinata sulla base di quella forbice edittale che è come se non fosse mai esistita.
A ciò si aggiunga che, applicandosi la suddetta tesi che qui si respinge, tutte le pene superiori ad anni 6 dovrebbero essere automaticamente ricondotte a quella di anni 6, cosicché soggetti in posizione diversa (per esempio chi è stato condannato ad anni 7, rispetto a chi è stato condannato ad anni 12) verrebbero ad essere irragionevolmente trattati allo stesso modo. Deve quindi concludersi per il ritenere illegittima la pena determinata sulla base della forbice edittale introdotta dalla l. 49/2006, che va sostituita con una pena che sia nuovamente determinata sulla base del ripristinato range edittale.
Venendo alla seconda questione, relativa a quali poteri abbia il Giudice dell’esecuzione nel rideterminare il trattamento sanzionatorio illegale nei termini sopra descritti, la soluzione da taluni indicata consisterebbe nella riduzione meccanicamente proporzionale della pena, sulla quale andrebbe applicata una matematica riduzione di due terzi, visto che la normativa dichiarata incostituzionale aveva triplicato la pena minima per le c.d. droghe leggere.
Approccio da altri tuttavia criticato, potendo la decisione del Giudice della cognizione di attenersi al minimo edittale, o di discostarsi di poco da esso, essere stata motivata – rispetto a una normativa che non distingueva tra droghe pesanti e droghe leggere – proprio dalla natura di droga leggera della sostanza oggetto materiale della condotta contestata.
Per tale ragione, con riferimento alla determinazione della pena base, si è affermato che la necessità di fare applicazione di una diversa norma con diversi limiti edittali di pena imponga un nuovo ed autonomo esercizio del potere discrezionale della pena da parte del Giudice dell’esecuzione sulla base degli usuali criteri di cui all’art. 133 c.p.
In buona sostanza, il Giudice deve applicare la pena, con i più favorevoli limiti edittali, al fatto così come accertato in sentenza, in via del tutto autonoma sulla base delle valutazioni che avrebbe compiuto in sede cognitiva, senza essere in alcun modo vincolato dalle determinazioni compiute in merito in sentenza, perché inevitabilmente condizionate dalle diverse cornici edittali allora applicabili.
Solo in questo modo può garantirsi compiuta attuazione al principio di legalità delle pene e di parità di trattamento punitivo perché si garantisce l’applicazione di una pena corrispondente a quella che conseguirebbe se il processo si facesse ora, mentre i vari criteri automatici proposti, nel tentativo di mantenere ferme le determinazioni del giudice della cognizione anche in punto di determinazione della pena, entro i militi edittali previsti, non convincono perché la determinazione concreta della pena non può mai essere mera attuazione di criteri matematici.
Questa conclusione è pienamente conforme alla constatazione che l’individuazione della pena base entro i limiti edittali non è mai operazione neutra, ma è sempre condizionata dalla pena in astratto prevista, sicché la valutazione può cambiare col mutare dei limiti edittali previsti dalla legge. La soluzione c.d. “a rime obbligate” non appare, inoltre, imposta né dalla considerazione relativa agli asseriti limitati poteri del Giudice dell’esecuzione in sede di commisurazione della pena, considerazione smentita dalla disciplina che consente l’applicazione dell’istituto della continuazione in sede di esecuzione; né da quella relativa a insuperabili vincoli ormai oggetto di giudicato.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.