Il concordato sui motivi di appello articolo 599 bis c.p.p.

A distanza di quasi dieci anni dall’abrogazione, la legge n. 103/2017, c.d. “Riforma Orlando”, ha reintrodotto nel codice di procedura penale l’istituto del concordato sui motivi di appello, il quale – com’è noto – consente alle parti di accordarsi sull’accoglimento, totale o parziale, dei motivi di appello, con rinuncia agli eventuali altri motivi e con indicazione al giudice stesso della pena concordata, ove i motivi su cui verte l’accordo comportino una sua nuova determinazione.

La nuova disciplina viene dal Legislatore collocata in un articolo a sé stante: l’art. 599-bis c.p.p., rubricato “concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”, che, nei suoi commi 1 e 3, riproduce integralmente la formulazione degli originari artt. 599 commi 4 e 5 e 602 comma 2 c.p.p. del codice del 1988.

E’ bene subito precisare che nonostante sia diffuso nella prassi riferirsi a tale istituto anche con l’espressione “patteggiamento in appello”, il concordato sui motivi d’appello, a differenza che dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti (il patteggiamento ex art. 444 c.p.p., appunto), non è un procedimento speciale. I due istituti hanno natura nettamente distinta:

  • il patteggiamento è un rito alternativo, fruibile fino all’udienza preliminare e comunque non oltre l’apertura del dibattimento, che comporta per l’imputato numerosi benefici, primo fra tutti quello della riduzione della pena fino a un terzo;
  • il concordato non comporta alcun beneficio, se non quello – comune sia all’accusa che alla difesa – di limitare drasticamente l’alea derivante dal giudizio di appello, ridotta al semplice vaglio del giudice su un’intesa già raggiunta.

Il secondo comma del nuovo art. 559-bis c.p.p. prevede l’esclusione di una serie di reati dal suo ambito di operatività (i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies), oltre a stabilire l’impossibilità di accedere al concordato sui motivi d’appello per chi sia stato dichiarati delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Nonostante la diversa natura, sopra esplicitata, del concordato dal patteggiamento, la previsione di cui al secondo comma ricalca il citato elenco dall’art. 444 comma 1-bis c.p.p. sul c.d. “patteggiamento allargato”, sovrapponendo indebitamente il concordato in appello con l’applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 ss. c.p.p. Legittimo, pertanto, dubitare della incostituzionalità dell’art. 599-bis comma 2 c.p.p., sussistendo il rischio che sia manifestamente irragionevole un trattamento differenziato in relazione ad un istituto di per sé “neutro” da un punto di vista premiale; per di più tale differenziazione è disfunzionale sotto il profilo dell’economia processuale, che ha ispirato la reintroduzione dell’istituto.

L’accordo raggiunto dalle parti in appello deve essere sempre sottoposto al vaglio del giudice, il quale decide in camera di consiglio (v. comma 1). Il giudice, se ritiene di non poter accogliere, allo stato, la richiesta, ordina la citazione a comparire al dibattimento (comma 3). In questo caso la richiesta e la rinuncia perdono effetto, ma possono essere riproposte nel dibattimento.

Infine,  il comma 4 dell’art. 599-bis c.p.p. prescrive un potere di direttiva del Procuratore generale presso la Corte di Appello nel dettare i criteri per “orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti“. Tale attività di coordinamento deve essere esercitata “sentiti i magistrati dell’ufficio e i procuratori della Repubblica del distretto“.

Una disposizione che lascia spazio a diverse perplessità. Innanzitutto, ogni Procura generale potrebbe adottare i suoi orientamenti in maniera differente dalle altre, così generando il rischio di disparità di trattamento da distretto a distretto. Inoltre, non si comprende bene nemmeno quale debba essere l’effettività da attribuire agli orientamenti così stabiliti, atteso che viene fatto salvo l’art. 53 comma 1 c.p.p., che attribuisce piena autonomia al pubblico ministero in udienza.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.