Commercializzazione della “cannabis light” e consumo ricreativo

La produzione e la conseguente commercializzazione della “cannabis light” costituisce un fenomeno in crescente sviluppo nel nostro Paese. E’ evidente come la diffusione sul mercato di un prodotto all’apparenza identico alla sostanza stupefacente ponga alcune problematiche per gli operatori coinvolti, a vario titolo, nell’azione di contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti, in special modo per quanto attiene alla possibilità di porre in sequestro i prodotti ai fini di accertamento della loro (il)liceità.

Fino a tempi recentissimi, le infiorescenze essiccate della pianta di cannabis contenenti il principio attivo psicoattivo d9-tetraidrocannabinolo (THC) rientravano senz’altro nell’ambito di applicazione del Testo Unico degli Stupefacenti (D.P.R. 309/1990), a prescindere dalla percentuale di principio attivo in esse contenuto; a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 242/2016, il quadro giuridico si trova a essere mutato, avendo il legislatore sostanzialmente legalizzato la coltivazione della cannabis light, contente cioè un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %.

La legge n. 242/2016 (in vigore dal 14 gennaio 2017), in particolare, è intervenuta a disciplinare la coltivazione della cannabis per uso agro industriale (con circolare del 22 maggio 2018 il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha, poi, fornito chiarimenti in ordine all’applicazione della suddetta legge).

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 comma 1 e 4 comma 5 della legge n. 242/2016 (rubricato Liceità della coltivazione), è consentita senza necessità di autorizzazione la coltivazione di cannabis che presenti una percentuale di THC non superiore lo 0.6%. Il coltivatore ha, però, l’obbligo di conservare i cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a 12 mesi, nonché le fatture di acquisto della semente, come stabilito all’articolo 3, rubricato Obblighi del coltivatore.

Il medesimo art. 4 prevede che il Corpo Forestale dello Stato (ora confluito nell’Arma dei Carabinieri) è autorizzato ad effettuare i necessari controlli e che questi controlli debbano avvenire necessariamente “a campione” con prelievo della coltura, da eseguire alla presenza del coltivatore a cui deve essere rilasciato un campione prelevato per eventuali controverifiche (si tratta, dunque, di un accertamento che deve avvenire nel contraddittorio con l’interessato).

Solo se a seguito di tale accertamento risulti che il contenuto di THC nella coltivazione sia superiore alla 0.6%, l’autorità giudiziaria potrà disporre il sequestro e la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate, senza che ciò determini la responsabilità dell’agricoltore che abbia rispettato tutte le indicazioni normative.

Viene fatto, comunque, salvo “ogni altro tipo di controllo da parte degli organi di polizia giudiziaria eseguito su segnalazione e nel corso dello svolgimento di attività giudiziarie”; si tratta di un controllo di tipo diverso, che si svolge nell’ambito delle attività di indagine da parte della polizia giudiziaria (di sua iniziativa o su delega del P.M.), allorché sussistano motivi  per ritenere configurabile il reato di coltivazione di stupefacente punito dall’art. all’art. 73 D.P.R. 309/1990.

Ciò premesso; la legge n. 242/2016, a ben vedere, si limita a disciplinare la coltivazione della cannabis light, senza nulla prevedere in ordine alla possibilità di procedere alla sua commercializzazione. Al suo interno, troviamo infatti elencate le finalità per cui la coltivazione della canapa è consentita ( o meglio, è promossa):

  • produzione di alimenti e cosmetici;
  • semilavorati per forniture alle industrie e alle attività artigianali;
  • produzione di materiale destinato alla pratica del sovescio;
  • produzione di materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
  • materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
  • coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative, nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
  • coltivazioni destinate al florovivaismo.

E’ facile rilevare come, tra queste finalità, non sia compresa quella ricreativa, ossia la produzione di canapa finalizzata al consumo ricreativo con assunzione tramite esalazione di preparati di cannabis (smoking).

Il problema della liceità della commercializzazione della cannabis light, nonché la sua detenzione a fini ricreativi, non ha tardato ad arrivare all’attenzione della giurisprudenza. Due gli orientamenti formatisi al riguardo.

Secondo il primo, più restrittivo, non occorre accertare che il principio attivo presente nella sostanza commercializzata sia inferiore allo 0.6%, essendo tale limite previsto solo per i coltivatori: chiunque commerci derivati dalla cannabis, in qualsiasi percentuale sia presente il THC, viola l’articolo 73 del t.u. 309/90, poiché le disposizioni della legge 242/2016 devono ritenersi speciali e sicuramente non estensibili analogicamente alle altre condotte disciplinate dal t.u. 309/90, tra le quali la vendita e la detenzione a fini di spaccio (v. Cass. sez. IV, sentenza 13 giugno del 2018 – 20 luglio 2018, n. 34332, con cui la Corte ha rigettato il ricorso dell’indagato avverso il provvedimento del Tribunale per il riesame che aveva confermato un sequestro di cannabis light rilevando che “il destinatario del margine di tolleranza fissato tra lo 0,2 e lo 0.6 % è l’agricoltore“, con esclusione dunque dell’applicabilità della normativa della legge 242/2016 a chiunque sia implicato nella commercializzazione dei prodotti della sostanza coltivata).

Il secondo orientamento, invece, afferma che la legge 242/ 2016 avendo legalizzato sostanzialmente la coltivazione della cannabis light, non può non riverberarsi sulla commercializzazione dei prodotti della coltivazione medesima: se coltivare cannabis è lecito, quando il principio attivo contenuto nella pianta è inferiore allo 0.6 %, ciò vuol dire che il prodotto della coltivazione non può più considerarsi, giuridicamente, “sostanza stupefacente” e non è dunque più soggetto alla disciplina del t.u. 309 del 1990 (v. Cass. sez. VI, 5 dicembre 2018).

A parere di chi scrive, va preferito quest’ultimo orientamento. La ratio della legge n. 242/2016 è infatti quella di promuovere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa, indicando le finalità per le quali la coltivazione della canapa è promossa.

Non tratta della sua commercializzazione, semplicemente perché non è chiamata a disciplinare i passaggi successivi alla coltivazione. Si tratta di una legge di “sostegno e … promozione” della produzione, nella quale – quindi – il riferimento alla tipologia di uso non comporta che siano di per sé vietati altri usi non menzionati. Né si può trascurare il fatto che è nella natura dell’attività economica che i prodotti della “filiera agroindustriale della canapa” che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati. La liceità della commercializzazione dei prodotti della predetta coltivazione (e, in particolare, delle infiorescenze) costituirebbe un corollario logico-giuridico dei contenuti della legge n. 242/ 2016.

Su queste basi si deve ritenere infatti che, nei riguardi del rivenditore di infiorescenze di cannabis provenienti dalle coltivazioni considerate dalla legge n. 242/2016 che sia in grado di documentare la provenienza (lecita) della sostanza, il sequestro probatorio delle infiorescenze può giustificarsi solo se emergono specifici elementi di valutazione che rendano ragionevole dubitare della veridicità dei dati offerti e lascino ipotizzare la sussistenza di un reato ex art. 73, comma 4, d.P.R. 309 del 1990.

Per quanto, invece, riguarda la posizione di chi sia trovato dagli organi di polizia in possesso di sostanza che risulti provenire dalla commercializzazione di prodotti delle coltivazioni previste dalla legge n. 242/ 2016, si tratta di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito. Questo comporta che la percentuale dello 0,6% di THC costituisce il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non devono considerarsi psicotropi o stupefacenti secondo un significato che sia giuridicamente rilevante per il d.P.R. n. 309/1990. Dalla piena legittimità dell’uso della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite deriva che il suo consumo non costituisce illecito amministrativo ex art. 75 d.P.R. n. 309/1990.

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.