Usura bancaria: concreta e presunta, calcolo del tasso usurario

La c.d. usura bancaria nasce, accanto alla tradizionale usura criminale, con la riforma introdotta dalla legge 7 marzo 1996 n. 108 di modifica dell’art. 644 c.p., come forma aggravata del delitto, per punire più severamente l’usura praticata da soggetti qualificati sotto il profilo professionale e istituzionale, che operano in un contesto lecito.

Essa concerne i rapporti tra banca e cliente-consumatore e ha a oggetto qualunque forma di finanziamento, sconfinamento di fido o erogazione di credito,  sottoscritti dalla persona offesa sia per ragioni personali sia per ragioni imprenditoriali.

Nonostante la collocazione tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, si ritiene che il reato di usura sia posto a tutela del mercato del credito, oltre che della libertà di autodeterminazione negoziale e di altri interessi attinenti alla sfera personale e patrimoniale della vittima.

La particolare offensività della usura bancaria è certamente da ricollegare alla posizione rivestita dall’ente bancario o intermediario autorizzato all’erogazione del credito nel nostro ordinamento giuridico. Nel nostro ordinamento tale attività è, infatti, esclusivamente riservata – tramite una fitta rete normativa – esclusivamente a soggetti i cui requisiti di onorabilità, capacità patrimoniale e professionalità siano stati verificati ex ante dagli organi di vigilanza.

Il testo unico bancario (TUB) prevede una articolata serie di norme finalizzate a combattere il fenomeno dell’abusivismo, quali l’abusiva attività di raccolta tra il pubblico del risparmio (art. 130), l’abusiva attività bancaria, relativa all’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico e di erogazione del credito (art.131), l’abusiva emissione di moneta elettronica e di attività di prestazione di servizi di pagamento (art.131 bis e 131 ter), ed infine, l’abusiva attività finanziaria, relativa alla concessione di finanziamenti di microcredito e di confidi (art. 132).

Lo status di operatore professionale della banca, a contrappeso dell’esclusività dell’attività esercitata, impone standard comportamentali ispirati alla tutela della fiducia e della buona fede nei rapporti con la clientela sia al momento dell’offerta dei prodotti bancari che nel momento della erogazione del credito, tali da incardinare una responsabilità omissiva per violazione di obblighi di informazione e di completa comunicazione (anche di elementi collaterali del regolamento contrattuale) ai sensi della fattispecie di truffa. La giurisprudenza ha ravvisato una posizione di garanzia nell’ente bancario, che trova fonte nel testo unico bancario e nelle norme del codice civile (v. Cass., Sez.II, 23 novembre 2011 n. 46669).

In tema di truffa contrattuale, nei rapporti tra banche, promotori finanziari e clienti, si è ravvisata la responsabilità penale del funzionario di banca (ma anche dei soggetti apicali: il presidente del consiglio di amministrazione), che sfrutta l’inesperienza e l’ignoranza in materia del compratore, o che predisponga regolamenti contrattuali minimizzando o non rivelando con completezza le clausole contrattuali relative a costi, oneri impliciti od occulti, forme varie di remunerazione, concernenti anche aspetti collaterali, accessori o persino esecutivi del regolamento negoziale principale, qualora la conoscenza di elementi non essenziali sotto il profilo strettamente contrattualistico, ma taciuti, avrebbe indotto la persona offesa a non concludere l’affare, e così consapevolmente tragga vantaggio (non proprio) per conto dell’istituto di credito (così Cass. Sez. II, 20 marzo 2014, n. 16342; Cass. Sez. II, 19 giugno 2012, n. 32859).

Tornando al delitto di usura, com’è noto l’essenza del reato viene dal legislatore individuata nella sproporzione del valore economico delle controprestazioni. Alla scelta di maggiore determinatezza della fattispecie, realizzata attraverso la determinazione legislativa dei tassi usurari (usura presunta, art. 644 comma 1), si accompagna l’incriminazione dell’usura c.d. in concreto (art. 644 comma 2, 2a parte), quale figura sussidiaria ed alternativa, che ricorre qualora gli interessi o i vantaggi pattuiti, pur inferiori al tasso soglia usurario, risultino in concreto “comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di danaro o altra utilità”.

L’usura in concreto si differenzia da quella presunta, in quanto l’accertamento della natura usuraria degli interessi o vantaggi dati o promessi come corrispettivo è rimesso all’accertamento giudiziale in concreto. In questa valutazione tornano ad assumere rilievo le condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima, al pari della fattispecie prevista ante riforma.

Per quanto attiene al tempo in cui occorre fissare la valutazione di sproporzione del sinallagma contrattuale, l’art. 1, co. 1, d.l. 29.12.2000, n. 394 (conv. con l. 28.2.2001, n. 24), stabilisce che «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale … si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento». Se da un lato, dunque, il reato si consuma – e la prescrizione decorre – solo con l’ultimo pagamento di capitale e interessi, è al momento della pattuizione che occorre fare riferimento nella rilevazione della usurarietà del tasso, negandosi così ogni rilevanza alla c.d. usura sopravvenuta.

Il comma 4 dell’art. 644 c.p. stabilisce, inoltre, che “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”. Rientra, dunque, nel costo del credito non solo quanto esplicitamente e formalmente denominato come tale (appunto, gli interessi corrispettivi), ma ogni altro costo, remunerazione, commissione a qualsiasi titolo, ancorché estraneo o in posizione accessoria rispetto al sinallagma, purché collegato all’erogazione del credito. Si ritiene infatti che l’elencazione di cui al 4° comma non è tassativa, in quanto vale ad includere ogni tipo di onere, costo e spesa, comunque denominata, che determini di fatto uno sbilanciamento tra prestazione e controprestazione.

Usando in senso atecnico il termini di corrispettivo, il legislatore ha voluto in sostanza evitare condotte fraudolente di elusione formale del divieto penale, laddove sotto la voce “corrispettivi” viene indicato un tasso irrisorio, ma in cui compaiono voci di costo e remunerazioni esosissime, tali da determinare una complessiva ripartizione degli obblighi sproporzionata a tutto svantaggio di una parte.

Nonostante la previsione del comma 4 dell’art. 644 c.p., la questione relativa a quali costi e remunerazioni debbano essere inclusi nel calcolo ha continuato, pur dopo la sua introduzione, a suscitare dibattiti interpretativi.

In particolare, la commissione di massimo scoperto è stata in un primo tempo esclusa dalla Banca d’Italia dal novero degli oneri rilevanti ai fini della determinazione del tasso soglia. Tale prassi amministrativa, classificata come illegittima dalla magistratura, ha pertanto indotto il legislatore a sancire expressis verbis l’assoggettamento ai tassi soglia usurari di tutte le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente (art. 2 bis della legge n. 2 del 28 gennaio 2009).

Si è successivamente posta la questione del computo di costi eventuali e di interessi moratori ai fini della normativa antiusura; e cioè se nella nozione di “corrispettivo” possa essere inclusa qualunque previsione contenuta nell’atto, compresa quella che attiene alla fase patologica del rapporto contrattuale, che subordina al verificarsi di condizioni future ed incerte (quali ad esempio il recesso anticipato o l’inadempimento) costi, remunerazioni, interessi o vantaggi aggiuntivi rispetto l’obbligazione principale.

Atteso che, secundum legem, a rilevare è qualsiasi costo purché connesso all’erogazione del credito, nonché la mera promessa di corrispettivi usurari (a prescindere dall’effettiva dazione), la risposta al suddetto quesito parrebbe scontata: essi rileverebbero ai fini della determinazione dell’usurarietà del tasso.

La giurisprudenza, sia civile che penale, ammette ad esempio la rilevanza ai fini di usura sia degli interessi moratori che di altri oneri previsti in caso di patologia contrattuale (es. clausola penale in caso di estinzione anticipata), nonostante non manchino decisioni di segno opposto.

Fonti:

Pubblicato da Valeria Citraro

Laureata in Giurisprudenza con 108/110 presso l'Università degli Studi di Catania, con tesi in Diritto Processuale Penale dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e Valutazione Probatoria". Abilitata all'esercizio della professione forense il 30/09/2016 con votazione 405/420.